Tag: Animalia

Amici di lunga data

Dove, come e quando l’uomo inventò il cane

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia

Se avete comprato LeScienze del mese scorso (ovvero il numero di Agosto 2009 – n.d.A.) e siete rimasti affascinati dall’articolo che riportava la scoperta della provenienza di uno degli animali più conosciuti e amati, il gatto domestico (che è comparso in Medio Oriente circa 10.000 anni fa), non potrete che accogliere con lo stesso interesse uno studio analogo svolto di recente sull’altro inseparabile compagno dell’uomo, il cane. Labrador, cani lupo, chihuahua e barboncini (così come le altre razze canine) appartengono difatti tutti alla stessa sottospecie, Canis lupus familiaris, della specie a cui appartengono i lupi grigi (Canis lupus), i loro più probabili predecessori; hanno perciò avuto tutti la stessa origine, anche se in seguito sono andati incontro a notevoli diversificazioni soprattutto per l’azione dell’uomo che ne ha selezionati i tratti peculiari nelle diverse linee di discendenza. Dove, quando e in che maniera questo sia avvenuto, però, è rimasto a lungo un mistero e ha dato luogo anche in tempi recenti a lunghi dibattiti in seno alla comunità scientifica.

Lo studio, svolto da membri dell’Istituto Reale di Tecnologia a Stoccolma in collaborazione con un team di ricerca cinese, è l’ideale continuazione di quello pubblicato nel 2002 dallo stesso istituto, dove il genetista Peter Savolainen aveva affermato l’origine unica ed est-asiatica del cane, pur non potendo all’epoca essere più preciso di così. Proprio questo studio era stato di recente messo in discussione da un lavoro di Adam Bokyo e Carlos Gustamante, biologi computazionali presso la Cornell University, che analizzando il genoma di cani africani addomesticati avevano dichiarato di avervi trovato una variabilità genetica paragonabile a quella individuata da Savolainen nel 2002: poiché il cane non è stato sicuramente addomesticato in Africa (dove non sono presenti i lupi grigi), questo risultato sembrava indicare l’inaffidabilità di questo parametro.

Questo nuova ricerca però, pubblicata su Molecular Biology and Evolution, porta una nuova e notevole messe di dati e giunge a conclusioni più precise e sicure. Savolainen e i suo collaboratori cinesi hanno difatti esaminato un piccolo tratto di DNA mitocondriale in più di 1500 cani distribuiti tra Asia, Europa e Africa (alcuni erano razze ben definite, altri semplici cani da lavoro presenti in aree rurali oltre a 40 lupi; inoltre, il gruppo di ricercatori ha anche sequenziato l’interno DNA mitocondriale di 8 lupi e 169 cani rappresentanti lo stesso range di diversità del precedente campione. In questi casi il risultato atteso è una maggiore diversità nel luogo in cui una specie ha avuto origine (dovuto alla maggiore diversificazione alla quale quei primi esemplari sono andati incontro), e in particolare un maggior numero di Haplogruppi, “raggruppamenti” di mtDNA simili: questo particolare punto di massima diversità corrisponde, secondo questi dati, a una regione a sud del fiume Yangtze, in Cina. A ulteriore conferma di questo risultato, man mano che ci si allontana da questa regione le differenze tra il DNA mitocondriale dei vari individui diminuiscono fortemente, ad esempio in Europa sono presenti solo 4 Haplogruppi.

Un altro aspetto interessante messo in luce da questo studio è che il pool genico dal quale hanno avuto origine i primi cani era molto più ampio di quanto ci si aspettasse, segno che l’usanza di addomesticare i lupi era diffusa e ben consolidata tanto che erano svariate centinaia di loro a vivere assieme a quegli antichi cinofili. Come tante altre specie addomesticare dall’uomo anche il cane ha svolto un ruolo importante nella nostra Storia, ed è ormai così strettamente inserito nella nostra vita di tutti i giorni da dare l’impressione che sia sempre stato un nostro compagno di viaggio, un viaggio che però, a quanto pare, è cominciato solo 16.000 anni fa.

Riferimenti:

Puoi leggere l\\\’Articolo completo direttamente sul sito di Scienzology

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Se avete comprato LeScienze del mese scorso (ovvero il numero di Agosto 2009 – n.d.A.) e siete rimasti affascinati dall’articolo che riportava la scoperta della provenienza di uno degli animali più conosciuti e amati, il gatto domestico (che è comparso in Medio Oriente circa 10.000 anni fa), non potrete che accogliere con lo stesso interesse uno studio analogo svolto di recente sull’altro inseparabile compagno dell’uomo, il cane. Labrador, cani lupo, chihuahua e barboncini (così come le altre razze canine) appartengono difatti tutti alla stessa sottospecie, Canis lupus familiaris, della specie a cui appartengono i lupi grigi (Canis lupus), i loro più probabili predecessori; hanno perciò avuto tutti la stessa origine, anche se in seguito sono andati incontro a notevoli diversificazioni soprattutto per l’azione dell’uomo che ne ha selezionati i tratti peculiari nelle diverse linee di discendenza. Dove, quando e in che maniera questo sia avvenuto, però, è rimasto a lungo un mistero e ha dato luogo anche in tempi recenti a lunghi dibattiti in seno alla comunità scientifica.

Lo studio, svolto da membri dell’Istituto Reale di Tecnologia a Stoccolma in collaborazione con un team di ricerca cinese, è l’ideale continuazione di quello pubblicato nel 2002 dallo stesso istituto, dove il genetista Peter Savolainen aveva affermato l’origine unica ed est-asiatica del cane, pur non potendo all’epoca essere più preciso di così. Proprio questo studio era stato di recente messo in discussione da un lavoro di Adam Bokyo e Carlos Gustamante, biologi computazionali presso la Cornell University, che analizzando il genoma di cani africani addomesticati avevano dichiarato di avervi trovato una variabilità genetica paragonabile a quella individuata da Savolainen nel 2002: poiché il cane non è stato sicuramente addomesticato in Africa (dove non sono presenti i lupi grigi), questo risultato sembrava indicare l’inaffidabilità di questo parametro.

Questo nuova ricerca però, pubblicata su Molecular Biology and Evolution, porta una nuova e notevole messe di dati e giunge a conclusioni più precise e sicure. Savolainen e i suo collaboratori cinesi hanno difatti esaminato un piccolo tratto di DNA mitocondriale in più di 1500 cani distribuiti tra Asia, Europa e Africa (alcuni erano razze ben definite, altri semplici cani da lavoro presenti in aree rurali oltre a 40 lupi; inoltre, il gruppo di ricercatori ha anche sequenziato l’interno DNA mitocondriale di 8 lupi e 169 cani rappresentanti lo stesso range di diversità del precedente campione. In questi casi il risultato atteso è una maggiore diversità nel luogo in cui una specie ha avuto origine (dovuto alla maggiore diversificazione alla quale quei primi esemplari sono andati incontro), e in particolare un maggior numero di Haplogruppi, “raggruppamenti” di mtDNA simili: questo particolare punto di massima diversità corrisponde, secondo questi dati, a una regione a sud del fiume Yangtze, in Cina. A ulteriore conferma di questo risultato, man mano che ci si allontana da questa regione le differenze tra il DNA mitocondriale dei vari individui diminuiscono fortemente, ad esempio in Europa sono presenti solo 4 Haplogruppi.

Un altro aspetto interessante messo in luce da questo studio è che il pool genico dal quale hanno avuto origine i primi cani era molto più ampio di quanto ci si aspettasse, segno che l’usanza di addomesticare i lupi era diffusa e ben consolidata tanto che erano svariate centinaia di loro a vivere assieme a quegli antichi cinofili. Come tante altre specie addomesticare dall’uomo anche il cane ha svolto un ruolo importante nella nostra Storia, ed è ormai così strettamente inserito nella nostra vita di tutti i giorni da dare l’impressione che sia sempre stato un nostro compagno di viaggio, un viaggio che però, a quanto pare, è cominciato solo 16.000 anni fa.

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Dove, come e quando l’uomo inventò il canepezzo originalmente pubblicato su PikaiaSe avete comprato LeScienze del mese scorso (ovvero il numero di Agosto 2009 – n.d.A.) e siete rimasti affascinati dall’articolo che riportava la scoperta della provenie…

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Dagli alberi al bipedismo

Scendere o salire?pezzo originalmente pubblicato su PikaiaLa lenta camminata dello scimmione che alzandosi su due piedi diventa uomo è una delle rappresentazioni più famose e diffuse dell’evoluzione umana, anche se per chi mastica anche solo un poco …

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Dagli alberi al bipedismo

Scendere o salire?

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia

La lenta camminata dello scimmione che alzandosi su due piedi diventa uomo è una delle rappresentazioni più famose e diffuse dell’evoluzione umana, anche se per chi mastica anche solo un poco la teoria darwiniana è decisamente un’eresia: non esiste difatti una direzione nella storia evolutiva, e i nostri antenati non sono “diventati uomini” ma, più prosaicamente, una delle loro linee di discendenza ha accumulato variazioni che hanno portato alla nostra specie e in particolare alla statura eretta. Questa immagine potrebbe inoltre essere sbagliata anche in un altro senso se come sembra sempre più probabile (e l’ipotesi di per sé è antica come la teoria dell’evoluzione stessa) i nostri antenati non camminavano affatto sulle nocche alla maniera di gorilla e scimpanzé.

La diatriba si è finora polarizzata in due fazioni: chi credeva che le somiglianze nella locomozione di scimpanzé e gorilla (le scimmie antropomorfe viventi più vicine filogeneticamente alla nostra specie), entrambi camminatori sulle nocche, fossero un forte indizio della presenza dello stesso comportamento nei nostri ultimi antenati comuni, e chi invece trovava più probabile che sulla nostra linea evolutiva si posizionassero, prima della comparsa di specie adattate a passare buona parte del loro tempo muovendosi su due piedi a terra, solo primati arboricoli. Alcune scoperte, come ad esempio la presenza in Australopithecus afarensis (che però non è un nostro antenato diretto) di caratteristiche degli arti adatte a una vita parzialmente arborea sembravano dare credito a questa seconda visione, mentre alcuni tratti tipicamente considerati adattamenti alla camminata sulle
nocche ritrovati in molti fossili di ominini estinti raccontavano una storia diversa. Proprio questi ultimi tratti però (o almeno una parte consistente di essi) sono stati recentemente riesaminati e reinterpretati da Tracy Kivell del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig e Daniel Schmitt della Duke University di Durham.

Lo studio, pubblicato di recente su PNAS, mette innanzitutto in evidenza come le locomozioni di scimpanzé e gorilla siano molto meno simili di quanto si pensasse finora. Prendendo in esame il comportamento e le ossa del polso di più di 200 tra scimpanzé, bonobo e gorilla il gruppo di ricerca ha mostrato come le particolari caratteristiche che permettono a scimpanzé e bonobo (sono state trovate rispettivamente nel 96% e nel 76% dei campioni esaminati) di camminare agevolmente sulle nocche siano praticamente assenti nei gorilla (sono state trovate solo nel 6% del campione esaminato). I gorilla devono difatti stendere completamente braccio e polso in quella che Kivell chiama “columnar stance” (ovvero “posizione a colonna”) per diminuire lo stress sulle giunture ed evitare che le dita si pieghino troppo, invece di mantenere il polso flesso come scimpanzé e bonobo che sono dotati di una serie di creste e concavità ossee atte proprio ad evitare questo piegamento eccessivo. Inoltre, non solo la camminata sulle nocche sembra essersi evoluta separatamente e in due maniere diverse nei due generi Pan e Gorilla, ma molte caratteristiche che tra gli scimpanzé e i bonobo servono a rendere più efficiente questo tipo di locomozione si ritrovano tra numerose scimmie arboricole e non tra i gorilla. Da ultimo, i due ricercatori fanno notare come molte di quelle stesse caratteristiche che condividiamo con scimpanzé e gorilla e che si erano sempre pensate come adattamenti alla camminata sulle nocche sono in realtà presenti addirittura in alcune specie di lemuri e quindi sono più probabilmente il residuo di un adattamento alla vita tra gli alberi, piuttosto che al suolo.

Più precisamente, Kivell sostiene che i particolari adattamenti di scimpanzé e bonobo potrebbero essere stati fissati dal processo evolutivo per la necessità di stabilizzare il polso nel passare da un ramo all’altro, un’operazione che richiede una presa salda e sicura. Osservando i resti fossili dei nostri antenati vissuti dopo la divergenza evolutiva col ramo che porterà al genere Pan, la transazione dagli alberi alla savana aperta appare come un processo lungo, che vide un lungo periodo “ibrido” nel quale questi antichi ominini cominciarono a passare sempre più tempo al suolo continuando però ad affidare grossa parte delle proprie chance di sopravvivenza alla protezione offerta dagli alberi: proprio a questo scenario evolutivo sembrerebbe adattarsi perfettamente l’ipotesi “dagli alberi al bipedismo”, che trae nuova forza dallo studio di Kivell e Schmitt. Per quanto questa ipotesi non possa ancora dirsi totalmente provata, e gli stessi autori dello studio si dicono intenzionati a cercare nuove evidenze negli anni a venire, ha probabilmente segnato un punto decisivo in una delle più lunghe diatribe riguardanti l’evoluzione umana.

Riferimenti:

Tracy L. Kivell, Daniel Schmitt, “Independent evolution of knucklewalking in African apes shows that humans did not evolve from a knucklewalking ancestor”, PNAS, Published online before print August 10, 2009, doi: 10.1073/pnas.0901280106

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Dagli alberi al bipedismo

Scendere o salire?

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La lenta camminata dello scimmione che alzandosi su due piedi diventa uomo è una delle rappresentazioni più famose e diffuse dell’evoluzione umana, anche se per chi mastica anche solo un poco la teoria darwiniana è decisamente un’eresia: non esiste difatti una direzione nella storia evolutiva, e i nostri antenati non sono “diventati uomini” ma, più prosaicamente, una delle loro linee di discendenza ha accumulato variazioni che hanno portato alla nostra specie e in particolare alla statura eretta. Questa immagine potrebbe inoltre essere sbagliata anche in un altro senso se come sembra sempre più probabile (e l’ipotesi di per sé è antica come la teoria dell’evoluzione stessa) i nostri antenati non camminavano affatto sulle nocche alla maniera di gorilla e scimpanzé.

La diatriba si è finora polarizzata in due fazioni: chi credeva che le somiglianze nella locomozione di scimpanzé e gorilla (le scimmie antropomorfe viventi più vicine filogeneticamente alla nostra specie), entrambi camminatori sulle nocche, fossero un forte indizio della presenza dello stesso comportamento nei nostri ultimi antenati comuni, e chi invece trovava più probabile che sulla nostra linea evolutiva si posizionassero, prima della comparsa di specie adattate a passare buona parte del loro tempo muovendosi su due piedi a terra, solo primati arboricoli. Alcune scoperte, come ad esempio la presenza in Australopithecus afarensis (che però non è un nostro antenato diretto) di caratteristiche degli arti adatte a una vita parzialmente arborea sembravano dare credito a questa seconda visione, mentre alcuni tratti tipicamente considerati adattamenti alla camminata sulle
nocche ritrovati in molti fossili di ominini estinti raccontavano una storia diversa. Proprio questi ultimi tratti però (o almeno una parte consistente di essi) sono stati recentemente riesaminati e reinterpretati da Tracy Kivell del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig e Daniel Schmitt della Duke University di Durham.

Lo studio, pubblicato di recente su PNAS, mette innanzitutto in evidenza come le locomozioni di scimpanzé e gorilla siano molto meno simili di quanto si pensasse finora. Prendendo in esame il comportamento e le ossa del polso di più di 200 tra scimpanzé, bonobo e gorilla il gruppo di ricerca ha mostrato come le particolari caratteristiche che permettono a scimpanzé e bonobo (sono state trovate rispettivamente nel 96% e nel 76% dei campioni esaminati) di camminare agevolmente sulle nocche siano praticamente assenti nei gorilla (sono state trovate solo nel 6% del campione esaminato). I gorilla devono difatti stendere completamente braccio e polso in quella che Kivell chiama “columnar stance” (ovvero “posizione a colonna”) per diminuire lo stress sulle giunture ed evitare che le dita si pieghino troppo, invece di mantenere il polso flesso come scimpanzé e bonobo che sono dotati di una serie di creste e concavità ossee atte proprio ad evitare questo piegamento eccessivo. Inoltre, non solo la camminata sulle nocche sembra essersi evoluta separatamente e in due maniere diverse nei due generi Pan e Gorilla, ma molte caratteristiche che tra gli scimpanzé e i bonobo servono a rendere più efficiente questo tipo di locomozione si ritrovano tra numerose scimmie arboricole e non tra i gorilla. Da ultimo, i due ricercatori fanno notare come molte di quelle stesse caratteristiche che condividiamo con scimpanzé e gorilla e che si erano sempre pensate come adattamenti alla camminata sulle nocche sono in realtà presenti addirittura in alcune specie di lemuri e quindi sono più probabilmente il residuo di un adattamento alla vita tra gli alberi, piuttosto che al suolo.

Più precisamente, Kivell sostiene che i particolari adattamenti di scimpanzé e bonobo potrebbero essere stati fissati dal processo evolutivo per la necessità di stabilizzare il polso nel passare da un ramo all’altro, un’operazione che richiede una presa salda e sicura. Osservando i resti fossili dei nostri antenati vissuti dopo la divergenza evolutiva col ramo che porterà al genere Pan, la transazione dagli alberi alla savana aperta appare come un processo lungo, che vide un lungo periodo “ibrido” nel quale questi antichi ominini cominciarono a passare sempre più tempo al suolo continuando però ad affidare grossa parte delle proprie chance di sopravvivenza alla protezione offerta dagli alberi: proprio a questo scenario evolutivo sembrerebbe adattarsi perfettamente l’ipotesi “dagli alberi al bipedismo”, che trae nuova forza dallo studio di Kivell e Schmitt. Per quanto questa ipotesi non possa ancora dirsi totalmente provata, e gli stessi autori dello studio si dicono intenzionati a cercare nuove evidenze negli anni a venire, ha probabilmente segnato un punto decisivo in una delle più lunghe diatribe riguardanti l’evoluzione umana.

Riferimenti:

Tracy L. Kivell, Daniel Schmitt, “Independent evolution of knucklewalking in African apes shows that humans did not evolve from a knucklewalking ancestor”, PNAS, Published online before print August 10, 2009, doi: 10.1073/pnas.0901280106

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Scatti selvaggi

Anche quest’anno il Natural History Museum di Londra delizia i suoi visitatori con una raccolta di fotografie naturalistiche mozzafiato (in quella sopra, uno splendido esemplare di Panthera leo si butta a riposare sul suolo dopo un lauto pasto, sì, qu…

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Scatti selvaggi

Anche quest’anno il Natural History Museum di Londra delizia i suoi visitatori con una raccolta di fotografie naturalistiche mozzafiato (in quella sopra, uno splendido esemplare di Panthera leo si butta a riposare sul suolo dopo un lauto pasto, sì, quello è sangue), se non potrete recarvi nella City per tempo, però, temo che dovrete accontentarvi come me della galleria online.
p.s. Se qualcuno avesse una versione ingrandita e me la mandasse all’indirizzo email in alto a destra sarei davvero, davvero grato (stranamente questa si trova solo su NewScientist a queste dimensioni)

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Scatti selvaggi

Anche quest’anno il Natural History Museum di Londra delizia i suoi visitatori con una raccolta di fotografie naturalistiche mozzafiato (in quella sopra, uno splendido esemplare di Panthera leo si butta a riposare sul suolo dopo un lauto pasto, sì, quello è sangue), se non potrete recarvi nella City per tempo, però, temo che dovrete accontentarvi come me della galleria online.
p.s. Se qualcuno avesse una versione ingrandita e me la mandasse all’indirizzo email in alto a destra sarei davvero, davvero grato (stranamente questa si trova solo su NewScientist a queste dimensioni)

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Gli occhi nuovi del pipistrello

Pezzo scritto originalmente per PikaiaIn inglese si dice “Blind as a Bat” (“cieco come un pipistrello”), ma a quanto pare l’espressione è decisamente infelice se come rivela uno studio pubblicato su PlosOne da un gruppo di ricerca del Max Plan…

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Gli occhi nuovi del pipistrello

Pezzo scritto originalmente per Pikaia

In inglese si dice “Blind as a Bat” (“cieco come un pipistrello”), ma a quanto pare l’espressione è decisamente infelice se come rivela uno studio pubblicato su PlosOne da un gruppo di ricerca del Max Planck Institute for Brain Research di Francoforte e del dipartimento di Neurologia dell’università di Oldenburg questi animali stupendamente adattati (sono gli unici mammiferi dotato di volo battente e messi tutti assieme rappresentano un quinto del numero totale di specie nella classe dei mammiferi) non solo fanno affidamento sul senso della vista, ma perlomeno alcuni di loro sono tra i pochi mammiferi a possedere anche la visione a ultravioletti.

La retina dei mammiferi può contenere due tipi di fotorecettori: i coni per la normale visione diurna e i bastoncelli per la visione notturna o con luce scarsa, e a seconda dello stile di vita a cui si è adattato ogni mammifero possiede questi ultimi o entrambi. I coni di molti mammiferi, inoltre, possiedono due popolazioni di pigmenti (noi umani assieme a tutte le scimmie del Vecchio Mondo e alcune di quelle sudamericane ne abbiamo tre), L e S, capaci di assorbire due diverse lunghezze d’onda: quelle lunghe del verde/rosso e quelle corte del blu/violetto. Il pigmento capace di intercettare queste ultime, in particolare, si è evoluto da quello che serviva, e serve ancora solo in pochissimi tra gli esemplari della nostra classe, a catturare i raggi ultravioletti (in pratica il pigmento in questione si è “spostato” di frequenza).

Com’è strutturata quindi la retina dei pipistrelli? Innanzitutto c’è da dire che l’ordine dei Chirotteri è suddiviso in due sottoordini: i microchirotteri (detti anche “veri pipistrelli”) e i megachirotteri o pipistrelli della frutta (ne fanno parte ad esempio le volpi volanti, i pipistrelli viventi più grandi). Proprio due microchirotteri dotati come tutto il sottoordine di occhi molto piccoli con retine dominate dai bastoncelli , Glossophaga soricina e Carollia perspicillata, sono stati oggetti dello studio. In un un primo tempo i ricercatori hanno trattato le retine di questi pipistrelli con anticorpi specifici per i vari pigmenti, scoprendo così la presenza di una percentuale minima, tra il 2 e il 4% del totale, di coni in mezzo alla moltitudine di bastoncelli. Possono sembrare pochi, ma studi effettuati su animali che ne presentano una quantità simile hanno dimostrato come questa permetta tranquillamente la visione diurna. L’analisi genetica dei pigmenti che normalmente permettono la visione delle frequenze corte, inoltre, ha permesso di determinare come i pipistrelli utilizzino i pigmenti S non per il blu/violetto ma per captare invece le frequenze dell’ultravioletto.

Già uno studio di qualche anno fa in realtà aveva dimostrato la capacità di individuare la radiazione ultravioletta in un pipistrello della frutta, Glossophaga soricina, ma all’epoca non era stato possibile individuare coni nella retina di questa specie e si era quindi attribuita questa abilità a qualche proprietà dei coni; questo studio, quindi, permette di comprendere meglio il funzionamento di questa caratteristica anche in altre specie oltre a quella direttamente studiata, oltre che a estenderla a un altro sottoordine dei chirotteri. Essere dotati sia di visione dicromatica che di visione ultravioletta è un notevole adattamento, molto utile in specie come i pipistrelli che sono attive dal tramonto all’alba e ne abbisognano sia per evitare i predatori sia per procurarsi il cibo (molte specie di fiori alle quali si approvvigionano i megachirotteri riflettono i raggio UV, ad esempio), ed è solo un altra delle spiegazioni l’incredibile successo evolutivo di un ordine diffuso in quasi tutto il mondo.

Riferimenti:
Müller B, Glösmann M, Peichl L, Knop GC, Hagemann C, et al. “Bat Eyes Have Ultraviolet Sensitive Cone Photoreceptors”. PLoS ONE, 4(7)

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Gli occhi nuovi del pipistrello

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In inglese si dice “Blind as a Bat” (“cieco come un pipistrello”), ma a quanto pare l’espressione è decisamente infelice se come rivela uno studio pubblicato su PlosOne da un gruppo di ricerca del Max Planck Institute for Brain Research di Francoforte e del dipartimento di Neurologia dell’università di Oldenburg questi animali stupendamente adattati (sono gli unici mammiferi dotato di volo battente e messi tutti assieme rappresentano un quinto del numero totale di specie nella classe dei mammiferi) non solo fanno affidamento sul senso della vista, ma perlomeno alcuni di loro sono tra i pochi mammiferi a possedere anche la visione a ultravioletti.

La retina dei mammiferi può contenere due tipi di fotorecettori: i coni per la normale visione diurna e i bastoncelli per la visione notturna o con luce scarsa, e a seconda dello stile di vita a cui si è adattato ogni mammifero possiede questi ultimi o entrambi. I coni di molti mammiferi, inoltre, possiedono due popolazioni di pigmenti (noi umani assieme a tutte le scimmie del Vecchio Mondo e alcune di quelle sudamericane ne abbiamo tre), L e S, capaci di assorbire due diverse lunghezze d’onda: quelle lunghe del verde/rosso e quelle corte del blu/violetto. Il pigmento capace di intercettare queste ultime, in particolare, si è evoluto da quello che serviva, e serve ancora solo in pochissimi tra gli esemplari della nostra classe, a catturare i raggi ultravioletti (in pratica il pigmento in questione si è “spostato” di frequenza).

Com’è strutturata quindi la retina dei pipistrelli? Innanzitutto c’è da dire che l’ordine dei Chirotteri è suddiviso in due sottoordini: i microchirotteri (detti anche “veri pipistrelli”) e i megachirotteri o pipistrelli della frutta (ne fanno parte ad esempio le volpi volanti, i pipistrelli viventi più grandi). Proprio due microchirotteri dotati come tutto il sottoordine di occhi molto piccoli con retine dominate dai bastoncelli , Glossophaga soricina e Carollia perspicillata, sono stati oggetti dello studio. In un un primo tempo i ricercatori hanno trattato le retine di questi pipistrelli con anticorpi specifici per i vari pigmenti, scoprendo così la presenza di una percentuale minima, tra il 2 e il 4% del totale, di coni in mezzo alla moltitudine di bastoncelli. Possono sembrare pochi, ma studi effettuati su animali che ne presentano una quantità simile hanno dimostrato come questa permetta tranquillamente la visione diurna. L’analisi genetica dei pigmenti che normalmente permettono la visione delle frequenze corte, inoltre, ha permesso di determinare come i pipistrelli utilizzino i pigmenti S non per il blu/violetto ma per captare invece le frequenze dell’ultravioletto.

Già uno studio di qualche anno fa in realtà aveva dimostrato la capacità di individuare la radiazione ultravioletta in un pipistrello della frutta, Glossophaga soricina, ma all’epoca non era stato possibile individuare coni nella retina di questa specie e si era quindi attribuita questa abilità a qualche proprietà dei coni; questo studio, quindi, permette di comprendere meglio il funzionamento di questa caratteristica anche in altre specie oltre a quella direttamente studiata, oltre che a estenderla a un altro sottoordine dei chirotteri. Essere dotati sia di visione dicromatica che di visione ultravioletta è un notevole adattamento, molto utile in specie come i pipistrelli che sono attive dal tramonto all’alba e ne abbisognano sia per evitare i predatori sia per procurarsi il cibo (molte specie di fiori alle quali si approvvigionano i megachirotteri riflettono i raggio UV, ad esempio), ed è solo un altra delle spiegazioni l’incredibile successo evolutivo di un ordine diffuso in quasi tutto il mondo.

Riferimenti:
Müller B, Glösmann M, Peichl L, Knop GC, Hagemann C, et al. “Bat Eyes Have Ultraviolet Sensitive Cone Photoreceptors”. PLoS ONE, 4(7)

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[Recensione] Il libro dell’ignoranza sugli animali

Non si finisce mai di scoprire, per fortunaSono abbastanza sicuro che molti di voi geek abbiate scartato “Il Libro dell’Ignoranza sugli Animali” quando, durante i vostri ciclici raid in libreria in cerca di qualcosa di nuovo da dare in pasto alla mater…

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[Recensione] Il libro dell’ignoranza sugli animali

Non si finisce mai di scoprire, per fortunaSono abbastanza sicuro che molti di voi geek abbiate scartato “Il Libro dell’Ignoranza sugli Animali” quando, durante i vostri ciclici raid in libreria in cerca di qualcosa di nuovo da dare in pasto alla mater…

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[Recensione] Il libro dell’ignoranza sugli animali

Non si finisce mai di scoprire, per fortuna


Sono abbastanza sicuro che molti di voi geek abbiate scartato “Il Libro dell’Ignoranza sugli Animali” quando, durante i vostri ciclici raid in libreria in cerca di qualcosa di nuovo da dare in pasto alla materia rosa (tanto per entrare subito in clima, dato che nel precedente libro gli stessi autori spiegavano che da vivi il cervello, essendo irrorato di sangue, ha questo colore piuttosto che il grigiolino post-mortem), sfogliando i libri della sezione scientifica ve lo siete ritrovato davanti. Lo so perché anch’io l’ho fatto, salvo poi ritrovarlo nelle segnalazioni di lettura dell’ultimo numero di LeScienze e pentirmene un poco. Sarà stato l’effetto tarpone (avrà sicuramente un nome vero ma a me piace questo), ma quando sono andato in libreria a comprare un regalo per la sorella questo libro mi è letteralmente caduto tra le mani, quasi a ricordarmi la mia snobberia, e non ho potuto fare a meno di comprarlo.
Potrei chiudere la recensione con una sola parola: AMAZING! ma tanto vale scrivere qualche riga in più, non credo ci sia molta gente che mi prende sulla parola.
Forse è meglio spiegare che quell’amazing non è tanto riferito al libro, che di per sé è scritto molto bene ma non è un capolavoro della letteratura (per fortuna), ed è invece tutto ciò che riuscirete a dire man mano che andrete avanti con la lettura. A essere amazing è l’insieme delle tecniche bizzarre, ovviamente solo dalla nostra prospettiva limitata, che sono comparse nel mondo animale grazie al processo evolutivo. Ci sono talmente tante specie diverse là fuori che probabilmente nessuna persona al mondo potrà mai vedere esemplari di nemmeno un decimo di loro, e ognuna di queste specie è a modo suo unica: riuscite a a immaginere quante possibili diverse combinazioni di caratteristiche vengono sperimentate in questo momento dal mondo animale? bene, ce ne sono molte, molte di più, e non avete idea di cosa la Natura è riuscita a “inventarsi”.
Questo libro vi farà conoscere i segreti meno noti di un centinaio di specie, alcune delle quali così comuni che probabilmente avete vissuto assieme a una di loro, regalandovi qualche oretta di intrattenimento (sono 300 pagine) e, si spera, una dipendenza che solo ore di National Geographic potranno tenere a bada in seguito. Il formato è molto pratico, il libro è diviso in capitoletti di massimo 3 pagine ognuno dedicato a una sola specie o genere, e le illustrazioni sono dei piccoli capolavori, disegnate non a caso da un ingegnere, che fanno sembrare le spiegazioni della fisiologia animali progetti per costruire dei futuristici cyborg. 16 euro possono sembrare tanti, ma un libro come questo lo sfoglierete più di una volta, garantito (e in più è ricco di storielle da raccontare per rimorchiare, quantomeno se il vostro territorio di caccia è il bar davanti alla facoltà di Biologia).
p.s. Il tutto viene da una trasmissione della Bbc, QI, uno dei tanti esempi di quanto all’estero diano la polvere ai nostri media (e dire che importiamo così tanti format televisivi!) specialmente per quanto riguarda la capacità di divulgare e raccontare la scienza.

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