Due settimane fa il presidente di una commissione parlamentare mi diceva
“sì sì, io credo proprio che i cittadini hanno la classe politica che si merita”.
Mi compiacevo della condivisione di questa convinzione con un parlamentare della Lega Nord: basta con la retorica della società civile, il ceto politico è espressione di tutti i problemi, di tutte le contraddizioni e i difetti della nostra cultura. Macché, avevo capito male, molto male: il parlamentare intendeva dire che il ceto politico va bene così com’è, che rappresenta la volontà della “gente”, i desideri della “gente”.
Ecco, da questo nodo passa un problema critico: la rinuncia a pensare che la società sia (debba essere) in continua evoluzione e che il ceto dirigente debba farsi carico di guidare un cammino, debba essere un’avanguardia. Insomma, che sappia interpretare sì “la pancia del Paese” ma che ne sia anche migliore, che sappia andare oltre. Che abbia una visione e la sappia tradurre in politiche.
Ho capito che la politica di oggi non è nulla di tutto questo: è piuttosto la legittimazione dell’esistente, anche del peggio, è lo sdoganamento dei sentimenti più beceri.