Prendo spunto da un articolo pubblicato su Romacapitale.it per spiegare la mia posizione in merito all’attuale situazione economica nazionale. Si potrebbe partire dall’ennesima affermazione di Marchionne che decide di lasciare l’Italia con la produzione di automobili. Quello che percepisco dalla situazione attuale è una sfacciata incoerenza in quello che ci si aspetta dalle istituzioni. Quello che rende difficile prendere posizione è che l’unica soluzione utile all’intero paese andrebbe contro anche alle fasce “più deboli” e che rende impopolare ogni espressione favorevole a quelle che sono le soluzioni più ovvie ed efficienti per uscire dalla crisi.
Il punto, e da qui penso che si possa condividere in molti, in Italia manca la meritocrazia. È un termine ormai così abusato che forse vale la pena definire. Merito è la giusta ricompensa in virtù delle proprie capacità quando queste vengono trasformate in azioni utili.
Il vantaggio della meritocrazia è che indipendentemente da origini genealogiche o conoscenze personali, hai le stesse possibilità di tutti.
Lo svantaggio è che hai meno garanzie: la ricompensa non andrà più assegnata a chi ha più conoscenze personali o ne ha più bisogno, ma chi ha lavorato meglio. Purtroppo ogni scelta ha anche un lato negativo.
Ora, se siamo d’accordo che lo vogliamo, dobbiamo essere d’accordo di volere anche le conseguenze che porta. E dunque che quando io scelgo a chi affidare dei compiti scelga in base al merito. Se una persona dimostra di essere ugualmente abile ad un’altra sceglierò quella più affidabile, quella con cui lavoro più volentieri, o quella che richiede di meno in cambio (rapporto qualità/prezzo della manodopera). Siamo d’accordo? Perché se una persona non è d’accordo su questo, significa che non è d’accordo con l’introduzione di maggiore meritocrazia nel sistema.
Se quindi Marchionne decide di spostare la produzione di auto in Polonia non agisce forse in maniera meritocratica? O forse ci aspettavamo che siccome FIAT è nata in Italia, occupasse anche solo persone italiane? Perché allora significa che ci reputiamo umanamente migliori, più meritevoli -per il semplice fatto di essere italiani- di un trattamento migliore, speciale. Siamo tutti uguali, ma gli italiani lo sono un po’ di più…
La più sensata argomentazione che si può dare è che la FIAT dovrebbe rimanere in Italia, è per riconoscenza del fatto che nei momenti più bui lo stato è intervenuto a tenerla in piedi in maniera diretta con sovvenzioni o in maniera indiretta attraverso l’Inps e la cassa integrazione. Certo, poteva non farlo. Ma se non l’avesse fatto un mucchio di gente sarebbe rimasta disoccupata e lo stato avrebbe avuto spese maggiori in termini di assegni di disoccupazione, meno entrate in tasse sul lavoro, oltre che un mucchio di voti in meno per il partito in carica. A forza di proteggere però queste situazioni, chi può fonda direttamente un’impresa all’estero. Significa che assumerà gente del posto che può licenziare di nuovo il giorno che gli affari andranno peggio, senza dover aspettare di fallire per poter lasciare la gente a casa con la coscienza a posto. Non è che un imprenditore ci goda a licenziare gente. Penso che nessuno lo faccia volentieri, ma se si vuole mantenere produttiva un’azienda questo è il prezzo da pagare, nella speranza di poter riprendere ad assumere una volta passata la tempesta. Forse non doveva assumere affatto la gente prima? Non è forse meglio lavorare e pagare i contributi per cinque anni che essere disoccupato sempre? Più è facile licenziare e più volentieri si assume. Dov’è il merito in tutto questo? Che i migliori tengono il posto di lavoro anche nel periodo di crisi, i peggiori no. E questa volta non peggiore non intendo in termini razziali (“erano meno italiani degli altri…”), ma per quel preciso compito non erano la persona più adatta.
Adesso, l’articolo su Romacapitale.it fa riferimento agli operai che lavoravano a palazzo Marini perché con i tagli ai politici (“la casta”, per coloro che seguono leader populisti), si è ridotto il budget per chi lavorava a servizio di costoro. Può fare arrabbiare sentire dire a uno degli intervistati “noi siamo operai!”, come dire “abbiamo diritto a mantenere lo stesso lavoro dalla prima assunzione alla pensione, anche se il nostro lavoro ora è inutile! Mica siamo di quelle altre categorie professionali dove valgono altre regole”.
Io mi chiedo, cos’hanno di più quelli che vengono qui e vendono kebab? Hanno innata una calamita per i soldi che dove aprono un negozio la gente arriva? Hanno fatto l’istituto alberghiero e quindi sanno come si fa, mentre se io mi mettessi ad aprire una bruschetteria non riuscirei con la stessa facilità? E i tassisti? Che scuola hanno frequentato da adolescenti perché adesso non debbano faticare? O gli infermieri dell’est? Sono tanto meglio di quelli italiani?
A me pare che tutte queste manifestazioni pretendano di avere ragione solo perché sono in tanti. Mentre c’è gente che lavora da altre parti, in proprio o da dipendente, con le stesse facoltà mentali e fisiche che, non riuscendo a mettere insieme grandi cortei, si ingegna altrimenti ed è disposta a fare di tutto per lavorare.
E più che chiederci se è giusto o ingiusto, dovremmo chiederci che alternative abbiamo. Perché solo quando ci sono delle alternative si può scegliere.
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