Lo squalo, la giornalista e le leggende

E’ di fresca stampa il nuovo libro di Juliet Eilperin dal titolo “Demon Fish”. Un lavoro, quello della giornalista del Washington Post, che è la sintesi di due anni passati ad osservare e studiare gli squali ed il rapporto di amore ed odio che lega questi pesci all’uomo tra paure infondate, leggende e tanta, forse troppa, cinematografia.
Proprio a quest’ultima si deve addebitare la responsabilità di aver fatto di questo pesce, incotrastato padrone dei mari, una macchina da incubi dall’appetito insaziabile. Un famelico divoratore di uomini.
Ma se il mondo in celluloide ha reso questo pesce il più temuto assassino dei mari, forse non tutti sanno che solo il 6% di questa specie è realmente pericoloso per l’uomo. Non tutti gli squali, infatti, sono pronti a divorarci mentre ci immergiamo nelle acque di mari e oceani.

Un libro, quello della Eilperin, che vuole porre in risalto come nella realtà sia l’uomo il predatore più terribile per questo animale e non viceversa. Oggi molte specie sono a rischio per pratiche orribili come lo “shark finning”, un rituale primitivo e barbaro che uccide ogni anno più di 73 milioni di esemplari nel modo più cruento e inutile che essere umano possa immaginare.
Gli squali pescati vengono privati delle pinne e ributtati a mare il più delle volte ancora agonizzanti. Paesi come la Cina, il Giappone, il Canada e gli Stati Uniti, sono tra i principali responsabili di questo tipo di pesca.

In Cina – spiega la scrittrice – la zuppa di pinne di squalo rappresenta la buona reputazione della famiglia ospitante e per questo motivo la si trova servita sulle tavole dei cinesi durante banchetti e cerimonie.
Si tratta per lo più di un inutile spreco dato che la pinna di squalo, essendo di tessuti cartilaginei, è del tutto insapore e inodore. Una pratica questa che unita alla pesca selvaggia, all’inquinamento dei mari e ai cambiamenti climatici sta contribuendo a decimare le diverse specie di squali.

Anche l’Italia, pur essendo proibito lo “Shark finning”, contribuisce a questa strage essendo gli italiani dei voraci divoratori di carne di squalo: verdesca, palombo, molti dei filetti di pesce fritto che mangiamo nei fast-food sono in realtà carne di squalo. Il problema principale è che spesso questi pesci vengono pescati quando ancora non hanno raggiunto la maturità sessuale provocando gravi danni per le specie che a causa della mancata riproduzione rischiano l’estinzione. Le specie di squali oceaniche sono in forte sofferenza con evidente danno per l’equilibrio degli ecosistemi oceanici.

Ricorda la Eilperin che sebbene questi animali abbiano un aspetto inquietante gli attacchi all’uomo sono veramente rari; va infatti ricordato che le vittime per attacchi di squalo sono mediamente 4/5 all’anno (nel 2011 purtroppo la media si è alzata dato che si contano 10 morti). Ad oggi è quindi più facile essere uccisi da un fulmine, schiacciati da un elefante o feriti da un fuoco d’artificio.

La probabilità che questi animali sopravvivano è legata ad un filo, occorre creare aree protette dove la pesca sia inibita o fortemente controllata. La speranza è che molti paesi che oggi sono responsabili diretti di queste politiche di pesca incontrollate prendano spunto da paesi come le Maldive o le Fiji dove ci si è resi conto che si può guadagnare di più proteggendoli piuttosto che ridurli a zuppa.

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