«Islandese, lituano e lettone sono già sparite da smartphone e pc. E anche l’italiano se la passa male. Secondo gli esperti, senza investimenti, alla lunga non saranno più parlate neanche nella vita reale.»
E ancora:
«L’allarme, nella giornata europea delle lingue lo scorso 26 settembre, è stato lanciato da uno studio di MetaNet, un gruppo di 200 tra linguisti e ricercatori di 34 Paesi, finanziato dall’Ue e capace di mettere in luce come in alcune nazioni, tra cui la nostra, le tecnologie della lingua sono insufficienti a salvare un intero patrimonio culturale dall’oblio.»
Non avendo alla mano i dettagli dello studio, né essendo un esperto linguista, non posso direttamente confutare la notizia sul piano delle scienze applicate nella ricerca, ma posso provare a esprimere un parere semi-competente da altre prospettive, l’una dall’esperienza quotidiana, l’altra dalle materie di studio.
L’esperienza di vita vissuta va a pescare nei quattro anni passati in Alto Adige, terra con tre lingue ufficiali (tedesco, italiano e ladino) e lanciata verso un futuro europeo (inglese), e dal semestre in corso a Copenhagen dove accanto al danese, l’inglese è parlato a livelli molto alti, soprattutto se comparati con altri paesi non-anglofoni.
Da esterno sembra incomprensibile ad esempio che in Alto Adige il tedesco parlato abbia una fortissima connotazione locale, tale da renderlo nelle forme colloquiali incomprensibile ai tedeschi proveniente dalla zona settentrionale della Germania. Sul momento verrebbe da pensare che il dialetto locale sia condannato all’estinzione nel corso di un paio di generazioni. Per non parlare del ladino. Entrambi gli idiomi non sono contemplati né nel T9 dei cellulari più vecchiotti, né nei correttori automatici degli smartphone. Eppure non ho visto un altoatesino fare una piega nel comunicare in maniera scritta secondo i canoni linguistici tradizionali: T9 disattivato di default e correttore automatico maledetto.
Se neppure gli altoatesini decidono di adottare il tedesco classico (quando quasi tutti i rapporti con l’estero partono dalla Germania e dall’Austria), perché mai dovrebbero passare all’inglese nella loro quotidianità?
Cosa succede in Danimarca? Dacché sono a Copenhagen (fine agosto) ho incontrato solo una persona che non parlava inglese. Una volta ad esempio abbiamo chiesto indicazioni a una signora sulla settantina che senza problemi ci ha indicato la strada. In inglese. Settant’anni. Provate in Italia.
Se in termini linguistici (per motivi culturali, economici e geografici) qui sono almeno due o tre generazioni che l’inglese è compreso e utilizzato, quanti anni pensate che potrebbero volerci prima che in Italia scompaia l’italiano?
Da un piano prettamente economico strategico invece, per quanto la lingua ufficiale aziendale è probabile che diventi l’inglese nel giro di poche generazioni, nella domestica quotidianità i tempi saranno certamente molto più lunghi, se mai giungeranno a tal punto. Le aziende continueranno a comunicare con i propri consumatori nella loro lingua madre, foss’anche solo per trasmettere un senso di intimità e tradizionalità al loro prodotto. Vi immaginate la Barilla promuovere gli spaghetti in inglese? Farebbe a pugni con il motto “Dove c’è Barilla c’è casa”. Accanto alla continua corsa alla globalizzazione (su un piano produttivo) c’è un crescente desidero nelle aziende (per esigenze di mercato) di rendere più locale la comunicazione e la distribuzione.
Altri input vengono dall’ambito culturale. Nei training interculturali e negli incontri che trattano del tema da me finora frequentati si è sempre detto che nonostante la globalizzazione, le diverse culture nel mondo non si stanno avvicinando. Basta stare all’estero per qualche mese per notare quanta differenza c’è tra un gente di paesi diversi e gli italiani sanno benissimo quali enormi barriere culturali ancora vigono all’interno del nostro stesso paese prendendo a confronto regioni che non distano più di qualche centinaio di chilometri.
Insomma, forse l’articolo di Repubblica cui faccio riferimento ha appositamente tralasciato di specificare l’orizzonte temporale della ricerca dei linguisti per non azzerare l’importanza della notizia.
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