iMille sono nati per contribuire a tessere la rete delle persone che desiderano un centrosinsitra moderno, forte, europeo, di cui andare orgogliosi. La sconfitta di Veltroni che si è consumata oggi con delle dimissioni serie, motivate dal sostanziale fallimento del suo progetto, è dunque in parte anche una sconfitta nostra e delle ragioni che ci avevano spinto ad aderire al progetto del PD.
Oggi non si è chiuso, come dipingono alcuni in maniera truffaldina, un tentativo politico concepito male. Quel che ha fallito è stato il metodo della trattativa continua, che ha fatto mancare ciò che sarebbe servito: la sintesi, una politica chiara, una leadership collettiva in grado di trasmettere un senso di futuro, credibile e convincente, alternativo al presente della paura, delle ronde, della crisi. Abbiamo contestato questo metodo, e le conseguenze ovvie che si portava appresso, dal giorno dopo la sconfitta elettorale, quando tutto il potere è tornato saldamente nelle mani di una continua trattativa a porte chiuse tra i vecchi dirigenti del DS e della Margherita.
Nessuna sintesi nuova è stata compiuta, nessun nuovo partito, basato su regole condivise fino in fondo, si è tentato di affermare. Qualche giorno fa, un giovane osservatore del PD mi ha chiesto “ma visto che le primarie non funzionano, non sarebbe meglio tornare alla cooptazione?”. La risposta a questa obiezione è che, con rare eccezioni, la cooptazione non è mai cessata, la cooptazione basata sulla fedeltà personale, meccanismo che Veltroni non ha saputo o voluto interrompere, è rimasto l’unico criterio adoperato da questa generazione di dirigenti per contornarsi di assistenti, non da possibili successori. Parlare di tentativo fallito significherebbe riconoscere l’esistenza di un tentativo di costruire qualcosa di nuovo. Invece il PD ha mutuato i peggiori difetti dei DS e della Margherita: nominalmente democratico, ma di fatto oligarchico, con gruppi dirigenti paralizzati da veti reciproci e costretti a mettersi sempre d’accordo per il terrore – nel vuoto spinto di idee politiche – di veder smarrito il proprio ruolo.
E’ ormai da anni che i commentatori pubblici e la quasi totalità delle persone delle generazioni successive a quella di Veltroni, D’Alema e Rutelli sostengono l’importanza della sfida politica aperta, tra opzioni politiche diverse. Molto più comodo invece avere un capro espiatorio da sacrificare, ieri Prodi, oggi Veltroni, così che il “caminetto” possa trovare una soluzione temporanea che consenta la sopravvivenza ai più, in attesa del prossimo disastro elettorale.
Che sia chiara una cosa tuttavia, e che possa giungere alle orecchie di chi ha dimostrato a lungo di non saper ascoltare. Non consideriamo la sconfitta di Veltroni una sconfitta personale o individuale. Nessuno di noi si tira fuori da responsabilità collettive, fossero anche le responsabilità di non aver saputo convincere un numero maggiore di elettori quando era il momento. Ma le responsabilità si misurano a gradi. Le dimissioni di oggi sono il penultimo capitolo di una generazione politica che ha avuto più di una possibilità, e ha ora l’occasione di conservare almeno l’onore. Una generazione di cui, accanto a Veltroni, sono protagonisti tutti coloro che hanno ricoperto cariche di sindaco, di ministro, di presidente di regione, di parlamentare. Una generazione che trovandosi a gestire il potere per la prima volta – forse inaspettatamente – a partire dagli ‘90: nelle città, nelle regioni e poi al governo nazionale, non è stata in grado di impedire l’affermarsi dell’egemonia politica e culturale del centrodestra, spendendo la gran parte delle proprie energie rivolta verso se stessa, mentre il resto del mondo andava avanti, e mentre una parte cospicua del suo elettorato chiedeva altro. Non se ne sono accorti, ma una nuova generazione sta già governando larga parte di quel che è il centrosinistra diffuso in Italia. Lo fa nella rete, nei giornali, nelle professioni, nelle università. I dirigenti in carica possono ora scegliere tra conservare l’onore, trovando le forme per farsi rapidamente da parte, o perderlo in una battaglia politica che – noi sì – abbiamo tutto il tempo di combattere e vincere.
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