Ci sono argomenti che mi restano in testa per lunghissimo tempo, discussioni che si ripropongono e spunti interessanti in cui si continua a inciampare. Vorrei un attimo spiegare come la vedo io e quale via di uscita vedo dall’economia del consumo (o che potremmo chiamare “Economia della competitività”, visto che spesso la dinamica è che ci sentiamo realizzati solo quando consumiamo più degli altri che ci circondano). Inizio traendo spunto dal numero di febbraio di Wired Italia per raccogliere i miei pensieri.
Se “abbastanza” diventa “troppo poco” (Wired Italia, numero 02.2012, pag. 111, autore Carl Richards)
L’articolo parte dall’osservazione immobiliare nel quartiere in cui viveva Richards: case che 30 anni fa parevano sufficientemente grandi per crescere cinque figli oggi erano appena sufficienti per le esigenze di una famiglia di quattro persone, genitori inclusi. Com’è che quello che in passato pareva un lusso oggi sembra appena sufficiente? Si potrebbero fare esempi fino allo sfinimento: l’età di adozione del primo cellulare si abbassa di annata in annata, i periodi di ricambio dell’auto si accorciano, le vacanze vanno fatte in paesi sempre più lontani e così via. In passato eravamo forse persone con esigenze diverse?
Un documentario della BBC spiega in maniera esaustiva come la massificazione del mercato del consumo, quello che oggi chiamiamo consumismo, sia nato quando nel nel primo dopoguerra americano le nozioni freudiane e in generale della psicologia si sposarono in maniera sistematica a campagne elettorali e commerciali: marketing e consumismo sono i figli gemelli di questo matrimonio.
Oggi a riguardo tra gli interessati penso si possano individuare due correnti di pensiero che vedono da un lato i favorevoli alle dinamiche attuali di mercato (in genere chi ne beneficia), che considerano i consumatori come polli che reagiscono ipnoticamente agli input comunicativi delle imprese, e dall’altra parte ci sono i contrari (in genere chi ne soffre), che si schierano contro le volpi cattive che in fondo cospirano solo per spolpare i poveri risparmiatori che acquistano apparentemente senza una volontà propria. A meno che non se ne parli con chi veramente si occupa di marketing e sa di cosa parla, il rischio è di schierarsi ciecamente dalla parte di chi crede nel complottismo internazionale. Quello che rende veramente sensata la discussione tra le due parti, distinguendola dal volgare berciare da derby calcistico, è che il nostro sistema produttivo-consumistico è sotto vari aspetti insostenibile a lungo termine.
Ha più colpa il cuoco o il cliente della sua obesità? Alla stessa maniera potremmo chiederci se è da biasimare chi di cerca di vendere i suoi prodotti di discutibile utilità umana o chi li compra da pollo che fila dritto a sprecare i suoi risparmi (per poi lamentarsi del suo stipendio da fame). Non siamo forse tutti dell’idea che chiunque è libero di decidere come spendere i propri soldi (purché nei limiti di legge)? Dovremmo allora convenire che anche la scelta della professione dovrebbe essere lasciata al singolo (purché nei limiti di legge).
Se si inizia a porre dei limiti ideologici al processo di accumulo e spesa dei capitali privati penso che ci si ritroverà con i problemi già riscontrati negli esperimenti del passato e del presente con vari nazionalismi degenerati nell’imposizione omologante di ideali e valori, soffocando ogni genere di libera iniziativa finalizzata alla realizzazione dell’individuo, pestando i diritti individuali e archiviando i principi umani di tolleranza e accoglienza del diverso.
Distruggendo le armi non si risolve una guerra. Bisogna trovare una via di sintesi tra le due parti per superare il conflitto. Come rendere dunque buoni gli uni e svegli gli altri?
È indispensabile che l’apparato educativo faccia lo sforzo di trasmettere un nuovo modello di successo, non più legato alla proprietà e ai consumi ma alla realizzazione di quella che potremmo chiamare “l’individuale vocazione” che guiderà ciascuno alla realizzazione di sé. È questo il primo passo per abbandonare l’attuale Economia della competitività (fortemente influenzata dalla pressione sociale che guida al volere più di quello che hanno gli altri e dunque ai consumi eccessivi) per avvicinarci all’Economia della felicità (che stimola le persone a fare ciò che a loro piace senza pressioni esterne).
[Immagine presa da qui.]
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