«Io, rifiutato come lavoratore nelle campagne perché italiano»

Nel quadrilatero dell’agricoltura bresciana la macchina della produzione è in moto già dalle primissime ore del mattino.

Nella Bassa, dove abbondano coltivazioni di mais e ortaggi, il lavoro manuale è quello rimasto invariato per millenni e spesso non serve manodopera qualificata.

Pantaloncini, zaino e scarpe da ginnastica, esploro una zona periferica percorrendo diverse piantagioni, solo a volte separate da recinzioni. Qui mi presento come giovane, italiano e senza lavoro.

In partenza all’alba e con tanto di curriculum alla mano, l’idea è quella di cercare un posto come operaio agricolo con un regolare contratto, provando così ad ottenere un salario che vada oltre le dita di una mano. Perché per definirsi lavoro ci sono precisi requisiti immutabili di cui tener conto, altrimenti si chiama sfruttamento.

Tra agosto e settembre le aziende agricole sono in piena attività. Alle prime ore del mattino un gruppo di lavoratori, forse di origine indiana, ha già la schiena piegata verso la terra.

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Appena messo piede nel perimetro di una piantagione si avvicina un uomo di origine straniera; non è il proprietario dell’azienda, ma lì sembra essere il responsabile. Mi guarda, poi osserva il curriculum, legge solo il nome.

«Sei italiano, non mi servi», è la frase con cui esordisce. «Qui abbiamo alcune regole, so che non ti va bene». Provo ad insistere, sottolineando di avere già svolto questo lavoro, ma ribadisce: «Ho già avuto italiani, facevano troppe richieste».

Eccola, la messa in scena di un’emergenza sociale ed economica che affligge non solo il Sud Italia. E di cui si parla ancora troppo poco. Un sistema che fa due «vittime»: il potenziale agricoltore a cui è impedito di svolgere un lavoro anche solo stagionale ma in regola, e il giovane straniero, ipersfruttato, sottopagato e non tutelato. Dopo la sua chiosa vado via, intuendo anche un certo fastidio da parte dell’interlocutore.

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«In Franciacorta siamo soprattutto in presenza di multinazionali, che difficilmente sono disposte a compromettere il brand cedendo all’illegalità», rivela Alberto Semeraro, segretario generale Flai Cgil di Brescia.

Eppure anche nel cuore pulsante delle bollicine non tutto sembra funzionare in maniera limpida. «Ho mandato mio figlio, studente di 21 anni, per fare vendemmia ed è stato rifiutato, così come l’altro ragazzo italiano che era presente lo stesso giorno», ci scrive il signor Raffaele.

Che il reclutamento nelle campagne bresciane (così come nel resto d’Italia) sia rivolto quasi esclusivamente a manodopera straniera è cosa acclarata (lo scorso agosto era stato l’ad di Berlucchi Arturo Ziliani a dire che «gli italiani non vogliono più vendemmiare»). Ma quello che riguarda una certa mancanza di tutele e di forme di compensazione territoriale è un tema ancora poco battuto. Eppure anche nel sistema primario del Bresciano, scarno di denunce per caporalato o lavoro nero, non sembrano mancare falle

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A pochi chilometri di distanza incontro Rasib, 25enne pakistano. Ha appena finito la sua giornata di lavoro e si avvia verso casa in bicicletta.

È lui a spiegare quella che – a suo dire – è una prassi di molte imprese del circondario: «Ti pagano in nero soltanto se sono pochi giorni di lavoro. Sennò ti fanno contratti per meno ore, ma lavori lo stesso tutta la giornata. Poi tutti gli attrezzi e i guanti devi comprarli, non te li danno».

Quel giorno Rasib, che ha cominciato alle 6 del mattino e ha smesso alle 18, ha guadagnato circa 35 euro, facendo due ore di pausa. Significa aver lavorato dieci ore per 3,50 euro l’ora. «Ma poi mi danno qualcosa in più perché sono rimasto tutta la giornata», dice quasi per giustificarsi.

Il giovane, infatti, ha un contratto part-time, ma lavora dall’alba al tramonto; così il resto lo prende fuori busta paga. Forse poco nero, insomma, ma tanto grigio: è questo che sembra raccontare un primo viaggio tra alcune campagne della provincia.

«In quella zona (la Bassa ndr) ci sono colture che richiedono manodopera non specializzata ed è molto più semplice prendere ragazzi indiani, pakistani e senegalesi che non hanno qualifiche né grosse aspettative», conclude Semeraro. 

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