Due ricorsi separati e l’identica conclusione. «Si chiede l’assoluzione dai reati di omicidio colposo e di naufragio colposo». È la richiesta, in vista del processo d’appello che ancora deve essere fissato, dei legali di Cristian Teismann e Patrick Kassen, i due tedeschi a bordo del Riva che ha travolto il gozzo di Greta e Umberto e che sono stati condannati in primo grado.
«Gli eventi si sono verificati anche per la condotta illecita tenuta dall’equipaggio del gozzo» si legge nel ricorso di Teismann, proprietario del potete motoscafo che la sera dell’incidente aveva lasciato nelle mani all’amico Patrick Kassen. «Cristian Teismann quella notte era un mero trasportato dormiente» scrivono i difensori del manager tedesco. I suoi legali negano che il Riva andassse a velocità quattro volte oltre il consentito e che i due turisti fossero ubriachi quando sono saliti sul motoscafo.
EMBED [Leggi anche]«È un elemento verosimilmente frutto del clamoroso e insano condizionamento mediatico che, sin dalle ore successive all’incidente, ha avvolto gli avvenimenti instillando la convenzione che si trattasse di una vicenda a rime incatenate, in cui il candore della gioventù spezzata delle vittime dovesse necessariamente trovare un contraltare nella tracotanza, superficialità ed intossicazione da alcol dei due falcoltosi manager tedeschi lanciati – come da titoloni della stampa – “in una folle corsa della morte”».
Per l’avvocato di Kassen invece «al momento dell’evento era Umberto Garzarella che versava in condizioni di franca ebbrezza ed è assai versomilmente si trovava addormentato sulla barca che procedeva alla deriva senza alcun conducente nè vedetta».
Nell’appello la difesa scrive: «La giustizia per quanto imperfetta e fallibile deve essere obiettiva e considerare anche l’agito delle vittime, se ha avuto – come ha avuto in questo caso – un rilievo nei fatti e può quindi determinare un diverso assetto delle consegueze giuridiche per gli imputati». E ancora: «La sentenza – sostengono i legali di Teismann – si produce in un clamoroso esercizio di doppiopesismo che vogliamo pensare dovuto all’esigenza – umanamente comprensibile, ma non giuridicamente secondabile – di preservare la memoria di chi non c’è più».
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