Come non dare torto ad Odifreddi?
La protesta studentesca infiamma l’Italia, e ci riporta con la memoria agli anni gloriosi del ‘68. Ben vengano le assemblee, i cortei, gli striscioni, le occupazioni, le proteste contro una riforma che, per il solo fatto di essere stata proposta da un ministro come la Gelmini, non può certo essere presa seriamente.
Anzi, mi stupisco che la Gelmini sia stata accettata seriamente come ministro, e che studenti e professori non abbiano fin da subito rifiutato di riconoscerle il ruolo che il suo curriculum (con e senza il prefisso) le aveva guadagnato. Non bisognava essere Sherlock Holmes per capire che una pivella di trentacinque anni, laureata in legge a Brescia e abilitata a Reggio Calabria, sfiduciata con un voto unanime e bipartisan come presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda per «manifesta incapacità», con un’esperienza parlamentare di due soli anni, poteva essere arrivata a far il ministro soltanto per motivi innominabili.
E’ un segno dei tempi e dei luoghi, cioè dell’Italia di oggi, che il Capo dello Stato non solo abbia accettato la nomina della Gelmini, cosí come della sua collega Carfagna, ma in seguito abbia trattato questi due cavalli di Caligola con rispetto «istituzionale», a volte addirittura elogiandone il lavoro, e legittimando in tal modo l’illegittimabile. Studenti e professori non avevano però obblighi di forma, e se si fossero tempestivamente rifiutati di riconoscere la Gelmini avrebbero potuto evitare di dover manifestare tardivamente contro la sua riforma.
Poichè io mi sono guadagnato un «lei fa schifo» in diretta tv dal ministro La Russa per aver detto queste cose il 1 ottobre 2009 a Porta a porta, credo di non poter essere sospettato di connivenza con la «signora-cavallo» se oggi manifesto un certo disagio nell’assistere a una protesta che accomuna studenti e professori, e se sospetto che i primi non abbiano ben capito che lo stato in cui versa l’università italiana dipende anche in buona parte dai secondi.
A me sembra che gli studenti dovrebbero richiedere a gran voce una riforma che tagliasse le teste dei baroni. Obbligasse i cattedrattici a un pensionamento a un’età equiparata a quella degli altri lavoratori. Risolvesse una parte dei problemi finanziari dell’università riassegnando i loro posti ai giovani ricercatori. Obbligasse i professori rimasti a sottostare a periodici e draconiani giudizi di efficienza e produttività. E rivedesse retroattivamente i criteri coi quali quei professori sono arrivati ad esserlo, eventualmente radiando i tanti che sono stati promossi per puro «demerito»: cioè, per nepotismo o per favoritismo.
Immaginare che una qualsiasi riforma dell’università possa avere successo senza intervenire radicalmente sui rapporti di forza esistenti, è analogo a pretendere di risanare un cesto di mele senza voler togliere quelle marce. O a sperare di poter sanare un organismo malato di cancro senza voler rimuovere quest’ultimo, col bisturi o con le terapie d’urto.
Le rivoluzioni non si fanno in maniera indolore, e le manifestazioni che uniscono ecumenicamente oppressi e oppressori sono sospette di manipolazione dei primi da parte dei secondi. Invece di accogliere baroni e politici sui tetti e sui monumenti dai quali manifestano, gli studenti dovrebbero inziare a buttarceli giù, insieme con la Gelmini. In maniera metaforica, è chiaro, ma non per questo meno concreta ed efficace.
Scritto martedì, 30 novembre 2010 alle 11:27
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