filosofia su due ruote

Ogni nazione ha una sua filosofia, diffusa tra la gente e identificabile nelle motociclette che produce. Non le auto, no. Proprio le motociclette che, soggette a meno vincoli produttivi e di design, sono quindi più libere di esprimere una filosofia legata al luogo di origine.

Prendiamo ad esempio le moto Americane per eccellenza: le Indian o le Harley Davidson: imponenti e adatte a macinare chilometri su strade lunghe e deserte, sono il novello cavallo di moderni pionieri. Si prestano a essere modificate, adattate, anche quando distrutte possono risorgere come Fenici. Moto che simboleggiano la libertà assoluta, che fanno da bandiera al carattere del proprietario, non temono giudizio ma anzi fanno battere il cuore di chi ha sperato almeno una volta di percorrere la Route 66.
Poi abbiamo quelle Italiane, grintose, spregiudicate, come le Ducati, le Gilera, le Guzzi, le MV, capaci di far sognare, di far innamorare. Amano i percorsi tortuosi e aspri, ben si adattano a distanze peninsulari, a caldi notti romane o tiepide primavere Comasche, nutrite a Lambrusco e tortellini, sono a loro agio in via Monte Napoleone ma anche sull’Appennino, catturano con fascino sensuale di chi le curve le ama sulla strada e nelle forme delle donne. Ammettetelo, cosa c’è di più sensuale di una V7? Lei ti sorride, ti sfida a cavalcarla sulla riviera, o nelle strade di provincia, la porti a ballare il liscio e quando la lasci in garage, a fine cavalcata, fatichi a staccarti da lei. Chi di noi non si è mai voltato attirato dallo scampanio di una Ducati? Chi non ha ascoltato il rombo trombettistico di una Laverda, chi non ha sognato una Benelli quattro cilindri o non ha ammirato l’aristocratica eleganza di una Bianchi 500?

Ogni fine settimana, dalle mie parti, sul mio Lago di Garda, i motociclisti si fermano a frotte, e io rimango incantato a osservare i loro mezzi parcheggiati a pettine, che si lasciano osservare, ma non invidiare, solo apprezzare.
Poi ci sono le inglesi, eleganti, inaffidabili, veloci se ci metti le mani, mezzi con cui puoi presentarti a una gara irregolare alla periferia di Londra o per incontrarti con la Corona, si confondono nel paesaggio agricolo e conservano la loro linea classica, eterne rivali delle imponenti cugine di oltreoceano, amate dai divi del cinema e protagoniste di pellicole memorabili. Salutate la Triumph di Brando ne “Il Selvaggio“, o quella di Richard Gere in “Ufficiale e gentiluomo”: quelle dueruote sono diventate tutt’uno con il personaggio. Una nebbiosa giornata di novembre nella campagna dell’Essex non è completa se fuori dal pub locale non vi è parcheggiata almeno una Norton, o una BSA. Che dire del soave incedere da parata di una Brough Superior? La Gran Bretagna come l’Italia è stata patria di numerosi geniali costruttori che hanno forgiato un vasto catalogo di marche, oggi perdute, ma dai nomi mitici come Ariel, Vincent, Humber, Machless, Sumbeam.
Torniamo sul continente, dove le tedesche, perfette, sicure, docili come il bestiame al pascolo ma all’occasione capaci di esprimere un cuore formidabile, non hanno il carisma delle Italiane, il fascino delle Inglesi o la personalità irriverente delle trasformiste Americane, ma rimangono dei capolavori di meccanica. Tanto di cappello alle maestose BMW, alle esotiche Zundapp o le austere DKW. Sarà, ma il loro suono morbido e sicuro, nasconde uno spirito generoso ma riservato. Si distinguono senza farsi notare, sono eleganti e mai volgari, son capaci di partire da una fredda Berlino e senza colpo ferire arrivare in una torrida Dakar senza scomporsi, attente all’ambiente e capaci di girare l’intero mondo senza dare alcun cenno di stanchezza. Ricordo le BMW R 80, bianche e arancioni con i serbatoi per i rally africani, passare sul lungo lago. Chissà se nelle borse ai lati non vi fosse ancora arrotolato un nero impermeabile di cuoio!
Poi le moto russe, eredi della stella rossa, pronipoti delle tedesche da cui derivano, spartane e aspre come la steppa. Dure e difficili, ma affascinanti come una donna dagli occhi di ghiaccio e dalle forme generose, opulente nel loro sidecar, appena riemerse da un rosso passato, tecnicamente obsolete – ma chissenefrega – sono piene di carattere e profumano di Borsch e Vodka, hanno il temperamento di un cosacco e la disciplina di un granatiere di Pavlov. Oltre la grande distesa asiatica ci sono le figlie del Sol Levante, le due ruote dagli occhi a mandorla. Non puzzano di benzina, non gocciolano olio, nascono per far concorrenza alle Italiane, alle Inglesi e alle Americane, tecnicamente le superano, sono affidabili più delle tedesche, sono colorate… Ma non hanno anima! Sono belle copie, senza carisma, ma che nascondono il fascino di una terra millenaria. Chi non ha avuto i brividi nel veder sfrecciare una Suzuki Katana, o chi non ha ammirato la maneggevolezza di una Honda Shadow… Io adoro la vetusta Yamaha Tenerè 600, mi perdo nel fantasticare osservando una Honda XL, intanto mi chiedo: “Ma una Kawasaki può avere un altro colore, oltre al verde pallido?”
Poi ci sono le moto che vengono da posti esotici, come l’India: le Anglo-Indiane Royal Enfield, sono cristallizzate nel tempo e spostate nello spazio, possono abbinare un doppiopetto grigio a un Sahari arancione.  Hanno il serbatoio dipinto a mano e una leva del cambio in più, ma chi se ne importa!
E i nostri cugini d’Olrtalpe? Sì, anche loro hanno aziende che fabbricano due ruote, la più nota è la Peugeot, storico marchio che produce dal macina caffè al carro armato, e ovviamente una lunga tradizione di moto, oggi mutate in scooter. Gli altri marchi le altre ditte si son persi per strada, peccato!
Ora passiamo a citarvi l’assolata Spagna, con le Bultaco, le Ossa, le Montesa, moto da fuoristrada, da domare come i tori da combattimento. Moto adatte alla pietrosa Andalusia, a loro agio sulle piste da cross o nelle mani della esuberante gioventù Iberica, un sorso di Sangria e via tra gli uliveti e poi su sui Pirenei a sfidar briganti, lupi e doganieri. E poi via, con quelle ruote veloci e nervose come i loro cavalli, per le vie di una immensa Madrid, o sul lungomare di Barcellona.
L’ultimo pensiero mi porta nelle lunghe notti dell’inverno Svedese, nelle sue giornate senza fine della nordica estate: da foreste incantate ecco emergere dalle foreste incantate l’imbattibile Husqvarna, algida, perfetta come le bionde creature del Nord. Se fossi un motociclista Tolkiano direi che essa è un Elfo a due ruote, vincente ma mai cattiva, rombante ma non fastidiosa, elegante e robusta, che sa regalare emozioni e divertimento, che si fa ammirare nei saloni e sulle piste infangate. Figlia di lontani fabbri armaioli, i suoi nonni furono moschetti e cannoni, è forgiata nel fuoco e nel ghiaccio; se ne incontrate una salutatela con riverenza, lei sotto sotto vi sorriderà con eleganza.

Il racconto dei miei pensieri è terminato. Ora me le vedo, belle in parata con le loro anime e le loro bandiere, prodotte per chi le ama, per chi le comprende, per chi le sogna. Sono le moto che ci portano là dove vogliamo andare, soli con noi stessi, soli nel nostro casco, unico conforto il rombo del motore. Un viaggio in moto è un viaggio con se stessi, un concerto dove l’orchestra ha tre elementi: una strada, un giubbotto e un’amica a due ruote che ti capisce ma ti tiene all’erta, che ti fa provare il freddo e il caldo, che non è importante dove ti conduce ma la strada per arrivarci. Un viaggio in moto è sempre un’avventura, una catarsi, è il modo migliore per conoscere se stessi e il mondo.

Carlo Scattolini

Vai articolo originale: http://www.giornaledelgarda.info/filosofia-su-due-ruote/

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