Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo. Eraclito
Di questi tempi aridi e soleggiati, l’invito a girovagare per prati e sentieri ci connette all’impulso primaverile delle piante. Una fra tante, la vite, ci insegna: ancora una volta, ha superato l’inospitale rigidità invernale spogliandosi del superfluo, massaggiando la propria linfa con lentezza esasperata, quasi letargica, mostrandosi senza vergogna nelle proprie contratture, nelle asperità nude dei tralci.
Ora, dalle ferite della potatura, stilla un fluido che la mano accudente del vignaiolo chiama “pianto”, lacrime linfatiche che accompagnano il risveglio delle radici e l’inturgidimento delle gemme. Ed è così che il germoglio prende forma, da una lenta e faticosa consapevolezza di un’urgenza che fa sbocciare dalla ferita. “C’è una crepa in ogni cosa – mormora Leonard Cohen – è così che entra la luce”. La crepa, la ferita, il pianto, la risalita radicale della linfa rimandano al mito della fenice che, al palesarsi dell’ombra della morte, si mette in cerca di un posto sicuro in cui prendersi cura di sé, un nido di “foglie di cassia, spighe di nardo fragrante, cannella sminuzzata e bionda mirra”. Il giaciglio odoroso è, allo stesso tempo, tomba e parto, sudario e vagito: la catarsi del fuoco incoraggia il cambiamento, la metamorfosi del lasciare andare, del disperdere ciò che è arso, del morire per tornare a vivere. Carl Gustav Jung paragona la capacità di risorgere della fenice alla possibilità dell’individuo di rimettersi al mondo, di partorire sé stesso per iniziarsi a vita nuova. Oltre l’eccezionalità del trauma, oltre l’esperienza del dolore, oltre lo squarcio della ferita, l’inesorabile discesa della sabbia del tempo ci racconta che nulla resta identico a sé stesso. Il cambiamento è inevitabile ed irrinunciabile. L’albero di acacia è simbolo del legame tra soffio e materia, esprime la saggezza della rinascita, il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. Ci invita ad avvinghiarci ai suoi rami ogni qualvolta l’esigenza profonda di trasformazione entra in conflitto con l’istinto di conservazione, quando l’attesa del momento propizio ci spinge a trascurare l’unico istante favorevole che è qui e ora. Ci sprona ad agire nel presente, a desistere dalla tentazione dell’alibi, a riporre le croci con cui addossiamo al mondo le nostre manchevolezze. E ci spinge a tessere amorevoli alleanze per costruire camminamenti operosi, lastra dopo lastra, picchetto dopo picchetto, condividendo il respiro affannoso e il sorriso della conquista. Ripartiamo da qui, dal nostro nido bianco di fiori di acacia e di pagine intonse, per rinascere al sole di una nuova primavera
Anna Dolci
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