A mettere a frutto la grande esperienza dei mastri cartai, e a suggellarne la qualità dei loro prodotti, la Valle delle Cartiere fu confortata dalla notevole presenza di stampatori quali Gabriele di Pietro, Paganino e Alessandro Paganini.
Alessandro, figlio di Paganino, trasferitosi sulle sponde del nostro lago nella seconda decade del Cinquecento, impiantò una fiorente stamperia sfruttando anche la facile reperibilità di carta da stampa, prodotta in quantità dalle cartiere toscolanesi. Inoltre la sponda bresciana del lago di Garda garantiva la vicinanza all’universo culturale della Magnifica Patria, e la facilità di comunicazione con Venezia: le merci, e in particolare la carta, seguivano rotte ben collaudate attraversando il lago e dunque fino a Verona per poi imbarcarsi lungo l’Adige ed il Po fino a Venezia. Alessandro Paganini, dunque elesse Toscolano o forse la sua frazione Cecina, a sua base operativa, conservando comunque una bottega anche in Venezia. Al tempo i piccoli stampatori si trovavano a dover spostare frequentemente la propria attività, seguendo l’evoluzione del mercato librario e cercando di volta in volta il favore di qualche ricco committente. Alessandro fu uno stampatore atipico, spregiudicato per certi versi, ma allo stesso tempo eroicamente lungimirante. Egli per primo stampò i suoi volumi in “ventiquattresimi”, cioè in un formato che oggi potremmo chiamare tascabile; libriccini di dieci centimetri circa, oggi quasi del tutto scomparsi, in un carattere creato ad hoc, anch’esso minuto. Ma non solo per le tecniche di stampa Alessandro fu diverso in qualche modo dai colleghi stampatori. Dopo molti anni passati in Venezia a fianco del padre, trasferitosi nel bresciano e poi sulle sponde benacensi in Toscolano, intesse fruttuosi rapporti con la corte dei Gonzaga, signori di Mantova, città che lo vide legato a sé per la sua storia personale, curando una delle opere che l’hanno reso maggiormente noto. Nella fucina di Toscolano, egli stampò le opere di Teofilo Folengo, letterato mantovano e in particolare nel 1521 una bellissima edizione del Baldus, poema semiserio in latino maccheronico, che lo eternò nell’universo degli stampatori cinquecenteschi. Mentre il Bembo, a Venezia, fissava criteri definitivi della lingua italiana, prendendo a modello il Petrarca e il Boccaccio, nel Veneto del Cinquecento fioriva una variegata letteratura in lingue vernacolari e artificiali, in cui risonava lo spirito del grottesco, della burla e della satira. Accanto al polverio di dialetti che s’investivano d’intenzioni letterarie, la lingua pedante, che propinava termini del “latinus grossus” tipicamente usati dai dotti di provincia per ingrassare la loro scienza, e soprattutto la lingua maccheronica, che commissionava latino greggio a italiano e dialetti, ebbero rilevanza notevole, andando a comporre opere di grande spessore ed estensione, prima fra tutte il Baldus del Folengo, la cui figura spicca tra i poeti maccheronici. Preziosa la ristampa delle Maccheronee (Opus Macarinicorum) che Paganino operò nel gennaio del 1521, dopo l’edizione veneziana del 1517. Qui il Folengo, con lo pseudonimo di Merlin Cocai, al tempo residente nel monastero di Sant’Eufemia, fece una radicale rielaborazione dei testi, con un ampliamento del Baldus, portato da 6230 versi a più di 12000 (ma la versione successiva ne conterà più di 15500). È il Baldus, a tutti gli effetti, l’opera più celebre e risolutiva del Folengo, cui si incardinerà tutta la vita del mantovano, trasmigratore in spirito e nomi (un secondo pseudonimo sarà Limerno Pitocco), benedettino irrequieto alla ricerca della purezza evangelica, fustigatore di malcostumi e irrisorie di un certo clero temporale, il che gli valse in fama, per stratificazione ideologica, ben oltre la vera intenzione autoriale.
Di qui, da questo poema che prende spunto da materiali dei cicli cavallereschi per liberamente manipolare in sfogo letterario, trarrà prestito e rapina un ben più noto Rabelais, che nel Gargantua et Pantagruele infilerà brani in sinottica familiarità con quelli del Baldus. Rabelais verrà considerato come nume imprescindibile della letteratura francese, laddove il Nostro mantovano resta confinato nel suo artificio verbale. Pur essendo l’artificio latino maccheronico una dotta ed elevata impresa, che usa accostare e infarinare termini latini, italiani e dialettali mantenendo una rigida metrica latina. L’origine del termine ‘maccheronico’ non è certa: da maccherone come composito di più ingredienti: Ars macaronica a macaronibus derivata, qui macarones sunt quoddam pulmentum farina, caseo. Botro compaginatum, grassum, rude et rusticum (Merlin Cocai); anche nei prefolenghiani, primo fra tutti Tifi Odasi, l’accostamento al maccherone è evidente; altri intendono “l’espressione latino maccheronico è una variante dell’altra latino di cucina, con cui gli umanisti satireggiavano il cattivo latino parlato dai cuochi dei conventi” (Migliorini-Duro). Un’altra esile ipotesi è che derivi dal greco Macaróneia, un carme sacro alla Madonna. Si intenda che maccherone nel Quattro-Cinquecento riferiva a una specie di gnocco tondo che poco spartisce con gli odierni maccheroni. Tra le altre edizioni toscolanesi del Paganini si ricordano diverse edizioni, redatte in tempi diversi, sia in ventiquattresimo che in ottavo, sul modello manuziano, del Canzoniere petrarchesco, delle opere di Boccaccio, di Dante, Sannazzaro e Trissino perlopiù tradotte in volgare per la prima volta, oppure in latino o greco con le edizioni delle opere di Giovenale, Orazio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Senofonte, Cesare, Orosio, Pomponio Mela e Boezio. Una differenza evidente tra le edizioni veneziane e quelle toscolanesi fu l’abbondanza di illustrazioni delle seconde. Nella stamperia di Toscolano, Paganini diede vita ad alcuni capolavori della stampa cinquecentesca che affiancavano al valore intrinseco dell’opera stampata il valore aggiunto di bellissime illustrazioni, come quelle conservate nell’edizione delle commedie di Terenzio stampate in Toscolano nel 1526. Un capitolo a parte merita la vicenda dell’edizione del Corano stampata tra il 1537 e 1538. Alessandro in questa data affrontò quella che si rivelerà la più pericolosa impresa della sua vita di stampatore. In Venezia, ove era più facile reperire l’opera di traduttori ed esperti in lingua araba, diede inizio alla stampa di un’edizione del Corano, impresa forse mai tentata prima da alcuno. Le difficoltà balzano subito all’occhio: in primo luogo la difficoltà di riprodurre in stampa un carattere tanto insolito e graficamente complesso; secondariamente l’avversione che doveva aver suscitato tale impresa in ambiente ecclesiastico, screditando in qualche modo il nome dei Paganini, additati come coloro che per profitto avrebbero prestato opera all’infedele mussulmano ed in terzo luogo l’avversione nei confronti della stampa del pubblico mussulmano. Malgrado tutto l’opera fu terminata, ma la redazione del Corano non fu felice, molti pare fossero in verità gli errori tipografici, tanti da offendere il sultano di Turchia, che non solo rifiutò il permesso di sbarcare il carico alle navi che trasportavano i volumi stampati, ma le fece addirittura affondare. Tale fu il danno economico che Alessandro Paganini rinunciò alla carriera di stampatore, non dando più traccia di sé dopo il 1537.
Una copia, miracolosamente sopravvissuta al tempo del Corano di Paganini, è stata rinvenuta recentemente, nel 1987, ed è tutt’oggi oggetto di studi. Al di là dell’epilogo tragico della carriera di Alessandro Paganini come stampatore, rimane l’orgoglio di aver ospitato sulle nostre sponde una delle figure più interessanti ed intriganti che recitò la propria parte ai tempi “eroici” della stampa in epoca rinascimentale.
” …ed egli venne su un grosso cavallo, pari in forza parea all’avo Rinaldo
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese… e soprattutto le gozzoviglia! in questo poema eroicomico dai vividi colori e reboanti invenzioni verbali…
«Mi è venuta la fantasia bizzarra di cantare la storia di Baldo con le Muse grasse», ci confida in capo ai versi l’autore, e chiama Gosa, Comina, Strega, Mafelina, Togna e Pedrala per imboccare di maccheroni e polenta il poeta nel suo tribolato compito.
Fra’ Teofilo Folengo, nel suo più famoso poema metta in opera tutto il suo alchemico latino maccheronico, in cui confluiscono e si intrecciano alla lingua dei dotti, il volgare e il gergale, l’alto tono e il basso, l’eroe e il goliardo, messi in tenzone erudita e sconcia. Il valore e l’influenza che ebbe il Baldus negli ambiti letterari fu ampia, tanto che un altro frate, ben goliardico e irriverente, François Rabelais, ne fa citazione e tributo nel suo Gargantua et Pantagruele. La seconda stampa del famigerato libro macaronico data il 1521, ed è opera dello stampatore veneziano Alessandro Paganino, trasferitosi con il suo laboratorio sulle rive del Toscolano, dove c’era abbondanza di carta e officine, nonché di operosità e ospitalità locale.
Cronologia essenziale
1511-1514 Alessandro inizia la sua carriera di stampatore in Venezia in autonomia dal padre, Paganino Paganini, pur esso stampatore che aveva affiancato fino a quell’anno.
1513 Alessandro pubblica in autonomia un breve testo del vescovo A. Giustiniani.
1515 Alessandro intraprende la creazione della sua collezione in “ventiquattresimo” seguendo le orme di Aldo Manuzio che muore quell’anno.
1516 La collezione si arricchisce di testi: Giovenale, Persio, Marziale, Catullo, Properzio, Tibullo e Terenzio. Parallelamente cura la pubblicazione in formato più grande delle opere classiche per eccellenza, da Ovidio a Virgilio.
1517 Venezia pullula di stamperie, il mercato, dopo gli anni d’oro tra 400 e 500, è saturo. Alessandro abbandona Venezia per stabilirsi a Toscolano, sulle sponde del lago di Garda.
1517-1520 L’attività editoriale vede diversi scenari: Toscolano, Salò e Venezia. Il 5 maggio 1517 Alessandro pubblica il suo primo libro “benacense” a Toscolano: il commento di Francesco Licheto a Duns Scoto.
1521 Dopo alcuni anni passati a sondare il nuovo terreno, passati a stampare opere di scarso impegno editoriale, vede finalmente la luce la prima edizione toscolanese delle Maccaronee di Teofilo Folengo. Nello stesso anno Alessandro stampa in ventiquattresimo otto volumi: il Canzoniere del Petrarca, Ovidio, Sallustio, Orazio, Pomponio Mela, Cicerone e Boezio.
1522-1532 L’attività fiorisce, la stamperia toscolanese del Paganini prospera. Accanto alle revisioni ed alle ristampe di opere in latino, vedono la luce le edizioni dei romanzi cavallereschi, tra cui l’Orlando Innamorato del Boiardo e edizioni in volgare di Boccaccio, Dante, Sannazzaro e Trissino.
1530-1532 Intorno a questo periodo vedono la luce alcune delle opere più originali tra quelle stampate da Alessandro Paganini: i libri dei ricami, stampati in quattro edizioni e ricchissimi di illustrazioni e decorazioni. L’estro e la spregiudicatezza di Alessandro sono premiate, la sua carriera pare continuamente in ascesa, i suoi volumi sono molto richiesti.
1537-1538 Dopo un ventennio passato a stampare opere di sicuro interesse, sebbene talvolta in formato non convenzionali, testi in greco, latino ed ebraico, Alessandro affronta la più grande impresa della sua carriera di stampatore: azzarda la stampa del Corano, in caratteri arabi. L’impresa fu faraonica, la spesa notevolissima. L’edizione del Corano non fu all’altezza dello sforzo che aveva richiesto, il testo costellato di errori ed il successo non coronò l’impresa.
1538 L’attività dei Paganini vede una battuta d’arresto, l’azzardo dell’anno precedente aveva rovinato la famiglia. Dopo il 1537 non v’è più segno dell’attività editoriale della famiglia Paganini.
Paolo Veronese
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