Troppo giovani per essere scimmie?
Non so quanti di voi abbiano mai visto uno scimpanzé, un gorilla o un orango dal vivo, chi lo ha fatto probabilmente non ne sarà uscito illeso, e non intendo fisicamente (a meno che non sia stato un po’ troppo imprudente), parlo dello sgomento che sale nel vedere animali così simili a noi. Potete immaginare che effetto dovessero fare a uomini digiuni di evoluzionismo e imbevuti di religiosità?
È durante la prima metà del XVII secolo che i confusi e pittoreschi racconti che i marinai narravano da tempo su uomini selvaggi simili a bestie che si diceva abitassero le foreste remote cominciano a prendere forma concreta, sbarcando fisicamente sulle coste europee e in particolare in Inghilterra e in Olanda, due nazioni che non a caso avevano frequenti commerci con le Indie Orientali e con l’Africa. I primi esemplari furono perlopiù individui giovani (e quindi più resistenti a un lungo viaggio per mare oltre che più facili da catturare) e facevano parte di due generi soltanto, ovvero oranghi e scimpanzé (di entrambe le specie, scimpanzé comuni e bonobo), e vennero considerati per lungo tempo appartenenti a una sola specie. Questi animali presero presto il nome di ourang-outang, il nome che un medico olandese di ritorno dalle Indie Orientali aveva riferito fosse utilizzato dalla popolazione indigena per la rossiccia antropomorfa locale (ovvero l’orango, e non lo scimpanzé che invece abita l’Africa tropicale), traducibile con “uomo dei boschi”. Questa confusione tra le specie di scimmie antropomorfe sarebbe stata comune per qualche decennio ancora, anche in ambito scientifico.
Inizialmente una stramberia per nobili, questi animali erano accompagnati da fantasiosi resoconti delle loro abilità, che arrivavano a comprendere ad esempio la capacità di parlare (si aggiungeva però che di norma se ne stavano zitti per non essere costretti a lavorare, i furboni). Oltre alle fantasie di marinai ed esploratori però c’era del vero nel vedere in loro abilità straordinarie per degli animali, e se forse l’affermazione di Samuel Pepys per il quale a uno scimpanzé “si poteva insegnare a parlare e a fare segni” va presa con le pinze di certo scimpanzé e oranghi stupirono chiunque li incontrasse per la loro somiglianza con la nostra specie.
Finalmente, nel 1641 viene pubblicata la prima descrizione ufficiale da parte di uno scienziato, il medico olandese Nicolaas Tulp, di quello che oggi si ritiene fosse stato uno scimpanzé o un bonobo proveniente dal serraglio dello statolder Frederic Henry, principe d’Orange. L’esame condotto da Tulp e le conclusioni a cui arrivò furono probabilmente viziati da una serie di elementi contingenti: sicuramente favole e dicerie lo seguirono passo passo nel suo studio (ad esempio non riuscì a rendersi conto che l’animale non era in grado di camminare completamente eretto), ma un ruolo importante lo giocò l’età dell’esemplare, troppo giovane per rendersi del tutto conto delle differenze tra antropomorfe e umani. Cosa c’entra l’età in tutto questo? Come descritto tra gli altri da S.J. Gould in un indimenticabile saggio sull’evoluzione della raffigurazione di Mickey Mouse nei fumetti Disney negli anni (lo trovate in “Il pollice del Panda“, edito in Italia da svariate case editrici nel corso degli anni), alcune specie presentano quelli che vengono chiamati caratteri neotenici, ovvero simili a quelli presenti negli individui giovani di altre specie venute in precedenza nella successione evolutiva. Qui a destra si nota molto bene la differenza tra uno scimpanzé giovane e uno adulto (attenzione però, lo scimpanzé non è un nostro antenato diretto! è però presumibilmente molto simile ai nostri “nonni”), e se ben ricordate lo scimpanzé sezionato da Tulp assomigliava molto più all’immagine di sinistra che a quella di destra: si capisce facilmente cosa lo portò a sovrastimare le somiglianze tra quell’antropomorfa e noi.
Per tutti questi motivi arrivò a dire che tra uomo e ourang-outang le differenze fossero minime, e assegnò a questa specie il nome scientifico di Satyrus indicus credendo di aver trovato in questo animale all’apparenza troppo umano addirittura il mitologico satiro, tralaltro già descritto come reale più di un millennio prima da Plinio il Vecchio. Questa scelta, che può apparire curiosa per un uomo di scienza agli occhi del lettore contemporaneo, poggiava su un nutrito immaginario popolare che già in epoca medievale pullulava di raffigurazioni fantasiose e grottesche di uomini selvaggi simili a scimmie, dotati peraltro spesso di turpi abitudini sessuali (come peraltro il satiro della leggenda).
Qualche decennio dopo, nel 1699, è il turno di un altro medico, l’inglese Edward Tyson, di compendiare le notizie sull’ourang-outang con una meticolosa dissezione di un esemplare adolescente, probabilmente un bonobo, giunto a Londra con una nave proveniente dall’Africa nel 1698 e morto quasi subito a causa di un infezione (lo scheletro è ancora visibile al museo di Storia Naturale di Londra, e lo trovate fotografato da me stesso medesimo all’inizio di questo post). Più accurato dell’esame di Tulp, quello di Tyson mise a paragone svariate caratteristiche morfologiche dell’ourang-outang con quelle dell’uomo e di altre specie di scimmie conosciute all’epoca e individuò 48 dettagli anatomici dell’ourang-outang che assomigliavano più ai corrispondenti umani e 34 che invece ricordavano maggiormente i corrispondenti scimmieschi, tanto che Tyson chiamò l’ourang-outang “pigmeo”, una mitologica razza di nani che autori antichi e medievali volevano abitanti dell’Africa. State cominciando a pensare che dare agli animali nomi di esseri fantastici fosse una stravaganza dell’epoca? non avete tutti i torti, ma a ben guardare se qualche decennio più tardi Linneo potè classificare (solo sulla base di racconti, ovviamente) tutta una serie di creature scimmiesche fittizie nel genere Homo da lui coniato, forse tanto “fantastici” all’epoca non erano considerati.
Ad ogni modo Tyson contribuiva col suo lavoro a consolidare l’immagine dell’ourang-outang come forma di vita intermedia tra l’uomo e gli altri animali. Dove però riconosceva vicinanze notevoli dal punto di vista anatomico, Tyson precisava (sulla scorta di Descartes, autore che ebbe molta influenza sul pensiero occidentale anche in questo ambito) che come tutte le creature viventi eccettuato l’uomo l’ourang-outang non possedeva un’anima razionale, ed era quindi una specie di “automa naturale” guidato a comportamenti meccanici da impulsi e risposte istintive. L’anima razionale quindi, e non qualche tipo di differenza fisica, distingueva l’uomo dagli altri animali e in questa maniera veniva sottolineata anche l’importanza che rivestiva per questi autori la volontà divina nel decretare cosa fosse la natura umana.
Sia Tyson che Tulp, con il loro operato, diedero nuovo materiale a una tradizione già ben avviata in ambito filosofico e in via di affermazione in quello naturalistico che voleva gli esseri viventi ordinati in una vera e propria scala naturae, nella quale ognuno avesse il suo posto stabilito in una progressione crescente verso la
maggiore complessità. Questa idea, che resistette in varie forme per lungo tempo, si impose per la prima volta nella comunità dei naturalisti con Charles Bonnet e in un certo senso alcune sue implicazioni furono sempre sottintese, anche dopo la scomparsa della sua versione più letterale dal dibattito, nei numerosi autori che partirono in seguito da una concezione antropocentrica del mondo, in opposizione agli autori tesi invece a lavorare su un’ipotesi di continuità, più o meno accentuata, tra esseri umani e mondo naturale. Fatte le debite proporzioni, molta della scienza
biologica successiva si può in ultima analisi ascrivere a un confronto tra queste due fazioni.
Anche molti autori guidati da sincero spirito naturalistico e determinati ad abbandonare concezioni predeterminate e fuorvianti come quella di scala naturae non riuscirono però a rinunciare davvero all’idea che l’uomo fosse qualcosa di altro dal mondo naturale, e anche dopo la comparsa provvidenziale (anche se fa un po’ ridere questo aggettivo messo qui) di Darwin e Wallace ci volle del tempo perché questa idea si facesse strada. Una strada però, è bene sottolinearlo, che se non fu aperta fu sicuramente spianata dalla comparsa di questi strani scimmioni ostinati a stupirci.
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Articolo originale? Eccolo, copia questo link:
http://scienzology.blogspot.com/2009/07/satiri-o-pigmei-le-antropomorfe.html