Autore: Marco_Michelutto

Wolfgang Köhler, un pioniere della moderna primatologia

Aver di meglio da fare durante la Grande Guerra

Il XX secolo, frenetico sotto molti aspetti, non mancò di esserlo nemmeno per le scienze naturali. Mentre nascevano la genetica, l’etologia, la psicologia e mentre personaggi del calibro di Julian Huxley, degno nipote di Thomas Huxley, fondavano quella che verrà chiamata Nuova Sintesi chiamando alla cooperazione specialisti sia di questi nuovi campi del sapere che di quelli più tradizionali, anche lo studio dei Primati aveva i suoi primi pionieri. In Giappone sorgeva la scuola di Imanishi, e verso la metà degli anni ’50 sarebbero state compiute le famose scoperte sui comportamenti culturali dei macachi dell’isola di Koshima, mentre in Occidente l’interesse fu rivolto soprattutto agli scimpanzé tenuti in cattività, e alle notevoli capacità latenti che dimostravano di poter sviluppare.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, un giovane psicologo tedesco di nome Wolfgang Köhler rimase bloccato a Tenerife dove trovò una colonia di scimpanzé trasferitavisi per conto dell’Accademia Prussiana delle Scienze; fu così che decise di studiarne le capacità cognitive, producendo una lunga ricerca che è ormai un classico della psicologia comparata. Tra tutti quelli che si occuparono di questo tipo di ricerche in questo periodo, Köhler è probabilmente il più rilevante in quanto si può dire che abbia riscontrato praticamente ogni schema comportamentale sotteso ai comportamenti che verranno poi scoperti negli studi sul campo dopo gli anni ’60, e molti se non la totalità di quelli riscontrati in genere negli scimpanzé. Non fu solo un pioniere, fu anche uno di più abili primatologi di un’epoca in cui questa disciplina praticamente non esisteva ancora.

Gli esperimenti di Köhler coinvolgevano solitamente uno stimolo, un ostacolo e un potenziale strumento per eliminare l’ostacolo: nella sua forma tipica questo esperimento consisteva nel mettere del cibo subito fuori dalla portata di uno scimpanzé e consegnarli un bastone col quale, ben presto, questi imparava a recuperare il cibo. In alcuni di questi esperimenti gli scimpanzé dovevano riuscire a procurarsi un bastone abbastanza lungo utilizzandone uno più corto (oppure impilare l’una sopra l’altra due o più cassette per raggiungere una ricompensa posta in alto), e riuscendoci dimostravano di saper attuare un minimo di progettazione delle azioni future. Un altra serie classica di esperimenti, di cui Köhler porta numerosi esempi, è inoltre quella che riguarda la costruzione o modificazione di arnesi: svuotando cassette per poterle spostare, rompendo bastoni o pezzi di legno, togliendo turaccioli da bastoni cavi per poterli congiungere ad altri e via dicendo gli scimpanzé dimostravano un grado ancora maggiore di progettualità: la capacità di adattare lo strumento ai propri scopi.

Cosa concluse Köhler da questi studi? Innanzitutto c’è da ricordare che egli dovette sempre fare i conti con l’altra faccia della medaglia delle condizioni sperimentali: queste sono sicuramente più favorevoli a elaborare prove scientifiche delle proprie teorie, e soggetti come gli scimpanzé possono essere certamente difficili da studiare in natura, ma solo osservandoli nel loro ambiente ci si può rendere davvero conto di alcune loro capacità. Köhler, che diceva “la persona che veda una scimmia antropomorfa mentre fa preparativi per un esperimento previsto nel futuro, le cui condizioni di svolgimento non sono ancora visibili, sarebbe testimone di una conquista ancora più alta…” non immaginava la facilità con cui questo comportamento è osservabile in natura, ad esempio quando alcuni scimpanzé scelgono i sassi adatti con cui aprire le noci distanti. Per via di questa mancanza di informazioni, probabilmente, e per una parsimonia nel formulare ipotesi sulle scimmie antropomorfe che gli proveniva dall’epoca in cui si trovava a vivere, era convinto che i comportamenti di queste scimmie antropomorfe, per quanto flessibili e intelligenti, fossero dettati solamente dai loro impulsi e bisogni istintivi, e che non fossero “aperti al mondo” e capaci di “conoscerlo in quanto tale”.

Insomma, per lo psicologo tedesco questi non avevano varcato ancora la barriera che stava tra gli uomini e gli animali, una barriera che forse si era spostata da quando Cartesio riteneva questi ultimi poco più che automi, incapaci addirittura di provare dolore, ma che purtuttavia reggeva ancora stabile, condizionando l’interpretazione e la ricezione di ogni nuova scoperta.

In molti seguirono l’esempio di Köhler, conducendo ogni genere di esperimenti su scimpanzé, oranghi, gorilla e gibboni, ma anche su scimmie non antropomorfe di vario genere come macachi o cebi cappuccini. I risultati furono controversi, contrastanti e segnati spesso da scarsa comprensione dei soggetti sperimentali dato che di pari passo a questi studi sulle capacità cognitive ne venivano compiuti pochi o nessuno sull’organizzazione sociale e sulla vita emotiva, né all’epoca si sapeva quanto fosse importante assicurare agli scimpanzé condizioni di vita simili a quelle allo stato naturale per ottenere da loro prestazioni in linea con le loro reali capacità. Ciò nonostante, il terreno era ormai fertile per ricerche di questo tipo e per il diffondersi di idee nuove e rivoluzionarie, che arrivarono puntuali qualche decennio dopo.

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Satiri e pigmei, le antropomorfe sbarcano in Europa

Troppo giovani per essere scimmie?

Non so quanti di voi abbiano mai visto uno scimpanzé, un gorilla o un orango dal vivo, chi lo ha fatto probabilmente non ne sarà uscito illeso, e non intendo fisicamente (a meno che non sia stato un po’ troppo imprudente), parlo dello sgomento che sale nel vedere animali così simili a noi. Potete immaginare che effetto dovessero fare a uomini digiuni di evoluzionismo e imbevuti di religiosità?

È durante la prima metà del XVII secolo che i confusi e pittoreschi racconti che i marinai narravano da tempo su uomini selvaggi simili a bestie che si diceva abitassero le foreste remote cominciano a prendere forma concreta, sbarcando fisicamente sulle coste europee e in particolare in Inghilterra e in Olanda, due nazioni che non a caso avevano frequenti commerci con le Indie Orientali e con l’Africa. I primi esemplari furono perlopiù individui giovani (e quindi più resistenti a un lungo viaggio per mare oltre che più facili da catturare) e facevano parte di due generi soltanto, ovvero oranghi e scimpanzé (di entrambe le specie, scimpanzé comuni e bonobo), e vennero considerati per lungo tempo appartenenti a una sola specie. Questi animali presero presto il nome di ourang-outang, il nome che un medico olandese di ritorno dalle Indie Orientali aveva riferito fosse utilizzato dalla popolazione indigena per la rossiccia antropomorfa locale (ovvero l’orango, e non lo scimpanzé che invece abita l’Africa tropicale), traducibile con “uomo dei boschi”. Questa confusione tra le specie di scimmie antropomorfe sarebbe stata comune per qualche decennio ancora, anche in ambito scientifico.

Inizialmente una stramberia per nobili, questi animali erano accompagnati da fantasiosi resoconti delle loro abilità, che arrivavano a comprendere ad esempio la capacità di parlare (si aggiungeva però che di norma se ne stavano zitti per non essere costretti a lavorare, i furboni). Oltre alle fantasie di marinai ed esploratori però c’era del vero nel vedere in loro abilità straordinarie per degli animali, e se forse l’affermazione di Samuel Pepys per il quale a uno scimpanzé “si poteva insegnare a parlare e a fare segni” va presa con le pinze di certo scimpanzé e oranghi stupirono chiunque li incontrasse per la loro somiglianza con la nostra specie.

Finalmente, nel 1641 viene pubblicata la prima descrizione ufficiale da parte di uno scienziato, il medico olandese Nicolaas Tulp, di quello che oggi si ritiene fosse stato uno scimpanzé o un bonobo proveniente dal serraglio dello statolder Frederic Henry, principe d’Orange. L’esame condotto da Tulp e le conclusioni a cui arrivò furono probabilmente viziati da una serie di elementi contingenti: sicuramente favole e dicerie lo seguirono passo passo nel suo studio (ad esempio non riuscì a rendersi conto che l’animale non era in grado di camminare completamente eretto), ma un ruolo importante lo giocò l’età dell’esemplare, troppo giovane per rendersi del tutto conto delle differenze tra antropomorfe e umani. Cosa c’entra l’età in tutto questo? Come descritto tra gli altri da S.J. Gould in un indimenticabile saggio sull’evoluzione della raffigurazione di Mickey Mouse nei fumetti Disney negli anni (lo trovate in “Il pollice del Panda“, edito in Italia da svariate case editrici nel corso degli anni), alcune specie presentano quelli che vengono chiamati caratteri neotenici, ovvero simili a quelli presenti negli individui giovani di altre specie venute in precedenza nella successione evolutiva. Qui a destra si nota molto bene la differenza tra uno scimpanzé giovane e uno adulto (attenzione però, lo scimpanzé non è un nostro antenato diretto! è però presumibilmente molto simile ai nostri “nonni”), e se ben ricordate lo scimpanzé sezionato da Tulp assomigliava molto più all’immagine di sinistra che a quella di destra: si capisce facilmente cosa lo portò a sovrastimare le somiglianze tra quell’antropomorfa e noi.

Per tutti questi motivi arrivò a dire che tra uomo e ourang-outang le differenze fossero minime, e assegnò a questa specie il nome scientifico di Satyrus indicus credendo di aver trovato in questo animale all’apparenza troppo umano addirittura il mitologico satiro, tralaltro già descritto come reale più di un millennio prima da Plinio il Vecchio. Questa scelta, che può apparire curiosa per un uomo di scienza agli occhi del lettore contemporaneo, poggiava su un nutrito immaginario popolare che già in epoca medievale pullulava di raffigurazioni fantasiose e grottesche di uomini selvaggi simili a scimmie, dotati peraltro spesso di turpi abitudini sessuali (come peraltro il satiro della leggenda).

Qualche decennio dopo, nel 1699, è il turno di un altro medico, l’inglese Edward Tyson, di compendiare le notizie sull’ourang-outang con una meticolosa dissezione di un esemplare adolescente, probabilmente un bonobo, giunto a Londra con una nave proveniente dall’Africa nel 1698 e morto quasi subito a causa di un infezione (lo scheletro è ancora visibile al museo di Storia Naturale di Londra, e lo trovate fotografato da me stesso medesimo all’inizio di questo post). Più accurato dell’esame di Tulp, quello di Tyson mise a paragone svariate caratteristiche morfologiche dell’ourang-outang con quelle dell’uomo e di altre specie di scimmie conosciute all’epoca e individuò 48 dettagli anatomici dell’ourang-outang che assomigliavano più ai corrispondenti umani e 34 che invece ricordavano maggiormente i corrispondenti scimmieschi, tanto che Tyson chiamò l’ourang-outang “pigmeo”, una mitologica razza di nani che autori antichi e medievali volevano abitanti dell’Africa. State cominciando a pensare che dare agli animali nomi di esseri fantastici fosse una stravaganza dell’epoca? non avete tutti i torti, ma a ben guardare se qualche decennio più tardi Linneo potè classificare (solo sulla base di racconti, ovviamente) tutta una serie di creature scimmiesche fittizie nel genere Homo da lui coniato, forse tanto “fantastici” all’epoca non erano considerati.

Ad ogni modo Tyson contribuiva col suo lavoro a consolidare l’immagine dell’ourang-outang come forma di vita intermedia tra l’uomo e gli altri animali. Dove però riconosceva vicinanze notevoli dal punto di vista anatomico, Tyson precisava (sulla scorta di Descartes, autore che ebbe molta influenza sul pensiero occidentale anche in questo ambito) che come tutte le creature viventi eccettuato l’uomo l’ourang-outang non possedeva un’anima razionale, ed era quindi una specie di “automa naturale” guidato a comportamenti meccanici da impulsi e risposte istintive. L’anima razionale quindi, e non qualche tipo di differenza fisica, distingueva l’uomo dagli altri animali e in questa maniera veniva sottolineata anche l’importanza che rivestiva per questi autori la volontà divina nel decretare cosa fosse la natura umana.

Sia Tyson che Tulp, con il loro operato, diedero nuovo materiale a una tradizione già ben avviata in ambito filosofico e in via di affermazione in quello naturalistico che voleva gli esseri viventi ordinati in una vera e propria scala naturae, nella quale ognuno avesse il suo posto stabilito in una progressione crescente verso la
maggiore complessità. Questa idea, che resistette in varie forme per lungo tempo, si impose per la prima volta nella comunità dei naturalisti con Charles Bonnet e in un certo senso alcune sue implicazioni furono sempre sottintese, anche dopo la scomparsa della sua versione più letterale dal dibattito, nei numerosi autori che partirono in seguito da una concezione antropocentrica del mondo, in opposizione agli autori tesi invece a lavorare su un’ipotesi di continuità, più o meno accentuata, tra esseri umani e mondo naturale. Fatte le debite proporzioni, molta della scienza
biologica successiva si può in ultima analisi ascrivere a un confronto tra queste due fazioni.

Anche molti autori guidati da sincero spirito naturalistico e determinati ad abbandonare concezioni predeterminate e fuorvianti come quella di scala naturae non riuscirono però a rinunciare davvero all’idea che l’uomo fosse qualcosa di altro dal mondo naturale, e anche dopo la comparsa provvidenziale (anche se fa un po’ ridere questo aggettivo messo qui) di Darwin e Wallace ci volle del tempo perché questa idea si facesse strada. Una strada però, è bene sottolinearlo, che se non fu aperta fu sicuramente spianata dalla comparsa di questi strani scimmioni ostinati a stupirci.

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[sciopero?] per quel che vale

Questo blog oggi non sciopera, e il perché sta tutto in questo pregiato pezzo di mfisk (nonsoabbastanza.blogspot), che da quando ho un po’ smesso di scrivere l’altro blog è diventato uno dei miei punti fermi internettiani

siccome, caro lettore, sei statisticamente pigro e non cliccherai ti riassumo la questione: il DDL fa schifo ma questo sciopero è inadeguato, oltre che inutile; se ora sei curioso clicca e se vuoi un consiglio salvati quel blog tra i preferiti).

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Otto per mille preferenze, otto per mille inganni

Ottomila buone ragioni per informarsi

L’altro giorno ero in treno (tornavo da una piacevole vacanza presso un amico abruzzese) e ho comprato, come faccio tutti i mesi, LeScienze, che per qualche motivo tuttora a me ignoto esce sempre qualche giorno in anticipo sul mese del numero corrente. Miracolosi viaggi nel tempo del corriere che porta le copie della rivista? chi lo sa, è però un’ipotesi avvalorata dal fatto che in ultima pagina ci ho trovato nientemeno che (e scusate il grassetto) la pubblicità dell’8×1000 alla Chiesa Cattolica. Ora, io non so se il redattore sia davvero alle strette, spero quasi (si fa per dire) che abbia grossi problemi finanziari per giustificare una cosa del genere, quello che però posso fare dal basso di un blog è lasciare un po’ di segnalazioni e spiegare un po’ cosa sia sto famoso otto per mille, visto che buona parte degli italiani non lo sa.

Innanzitutto questo video molto chiaro (via presenteduepuntozero) racconta un po’ la storia di questa strana tassa che l’Italia paga al Vaticano, è fatto molto bene (al di là della cornice “intervista doppia” che sinceramente ha un po’ rotto ma probabilmente penetra bene nella testa dell’uomo della strada) e vi consiglio di darci subito un’occhiata, se poi volete trattazioni esaustive vi aggiungo occhiopermille e il sito dell’uaar. Lasciamo perdere il cinque per mille, che è abbastanza chiaro, e passiamo all’otto per mille (ripeto cose che trovate nei link e nel video, ma statisticamente, caro lettore, non hai cliccato niente e quando finalmente lo farai sarà la x in alto a destra), che è molto più controintuitivo di quanto si pensi. Ad esempio, mettendo una crocetta su “Chiesa Cattolica” (si può scegliere tra sette diverse confessioni e lo Stato, o meglio a un fondo statale dedicato, teoricamente, a un certo tipo di spese), verserò l’otto per mille del mio gettito Irpef alla Chiesa cattolica? no, si tratterà invece di una specie di votazione, di una preferenza che riguarderà la distribuzione dell’8 per mille del gettito Irpef TOTALE di tutti gli italiani, col risultato che se la Chiesa, al netto dei voti inespressi che valgono un po’ come gli astenuti alle elezioni, prende l’80% dei voti espressi, si prenderà anche l’80% dell’8 per mille del gettito Irpef. Confusi? ecco qualche dato per capire l’entità della questione (copincollo dal sito dell’Uaar linkato prima)

Il Ministero delle Finanze, già restìo a fornire statistiche in merito (comunica i dati alle sole confessioni religiose, che ne danno notizia con estrema riluttanza), è peraltro estremamente lento nel diffondere i dati. Le ultime comunicazioni ufficiali e definitive si riferiscono incredibilmente alle dichiarazioni dei redditi del 2003 (redditi 2002).Questa la distribuzione:

89,16% Chiesa Cattolica
8,38% Stato
0,55% Valdesi
0,39% Comunità Ebraiche
0,27% Luterani
0,22% Avventisti del settimo giorno
0,07% Assemblee di Dio in Italia

Si noti che, in tale occasione, su oltre trenta milioni di contribuenti solamente il 39,52% ha espresso un’opzione: solo il 35,24% della popolazione, quindi, ha espresso una scelta a favore della Chiesa cattolica. Per dare un’idea dell’enormità della cifra corrisposta grazie a questo meccanismo, la Conferenza Episcopale ha disposto nel 2007 di contributi per 991 milioni di euro.

In pratica quei 991 milioni di euro del 2007 sono il risultato (a patto che le percentuali del 2007 siano le stesse del 2003, cosa che assumiamo per comodità dato che è improbabile che siano variate molto) della scelta dell’89,16% di chi ha espresso una preferenza, ma solo del 31,4% dei contribuenti, pertanto la Chiesa Cattolica si è ritrovata con un buon 57,46% di gettito in più di quanto gli sarebbe spettato se l’8 per mille funzionasse come generalmente si suppone, 569 milioni e rotti. Se mi avete seguito fin qui vi sarete resi conto della machiavellicità di questo meccanismo, e non è un caso se l’Uaar si sta impegnando nel promuovere la sua abolizione. Nel frattempo che segno mettere, dato che non spuntare nulla peggiora le cose? la scelta più logica sarebbe spuntare la casella “Stato”, ma un semplice esempio di come chi sia al potere ad oggi faccia uso di questi fondi spero possa dissuadervi tutti. A questo punto dismetto per un attimo la mia casacca da mangiapreti, prendo un bel respiro e cedo: date il vostro 8 per mille alla Chiesa Valdese, raccolgono abbastanza da poter essere incisivi, hanno sempre espresso posizioni incredibilmente laiche (per dei religiosi, ma anche comparate a quelle dei politici del PD per dire) e usano tutto quello che gli arriva da questa fonte per scopi rimarchevoli, senza distrarre un solo euro al sostentamento dei loro pastori.

Sperando che prima o poi si possa scegliere davvero.

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What would Nature do?

Se non puoi batterli, copiali

Tra i (pochi) motivi per installare la televisione satellitare in casa ci sono sicuramente i canali dal 400 in poi, una lunga serie di documentari per tutti i gusti che vanno dall’australiano molestatore di rettili di turno ai classici del National Geographic. Tra tutti, quelli che mi fanno spalancare la bocca come un bambino (in realtà lo fanno quasi tutti, diciamo quelli che ci riescono meglio) sono quelli della serie “Scienza per assurdo”, che mi pare siano trasmessi da Discovery Channel. In breve, questi documentari sono divisi in più sezioni e partendo da un animale ne fanno risaltare una caratteristica “eccezionale” (ad esempio la capacità del geco di aderire a ogni parete), spiegano come funziona e passando di scienziato in scienziato attraversano tutto il percorso che ha portato dal riprodurre questa funzione al miniaturizzarla fino a renderla disponibile per qualche applicazione pratica. Animali che lasciano senza fiato più tecnologia d’avanguardia? potrei vivere solo di questo.
Ad ogni modo tutto questo panegirico per segnalare un sito che, come a questo punto sarete capaci di comprendere, trovoestremamente affascinante: AskNature. Come nei documentari di cui sopra, il sito curato dal Biomimicry Institute si propone di raccogliere numerosi esempi di “copie” artificiali di caratteristiche eccezionali di animali e piante, ed è un’ottima occasione per stupirsi un po’ della potenza dei miliardi di anni di selezione naturale che hanno portato alle “infinite forme bellissime” che osserviamo oggi, oltre che dell’ingegno umano e della sua incredibile capacità di scovare, capire e imparare dai meccanismi più reconditi che stanno sotto alla realtà che osserviamo tutti i giorni.
Il piccione dell’immagine, ad esempio, condivide con tutto l’ordine dei columbiformes e con molti altri uccelli un piumaggio delle ali che impedisce loro di bagnarsi o sporcarsi, mantenendole quindi asciutte e pulite. Edward Bormashenko, del dipartimento di Fisica della Ariel Univerity ha scoperto che la superficie delle penne di questi uccelli è ricoperta da minuscoli solchi (di profondità che va dai 100 nanometri ai 10 micron) che a un angolo di 180 gradi intrappolano l’aria formando una specie di barriera che impedisce all’acqua e allo sporco di aderire alle ali, con evidenti vantaggi per quanto riguarda il volo. Non solo, Bormashenko è riuscito anche a ricreare un polimero, che ha chiamato superidrofobico, che riesce a replicare tutto ciò, con possibili applicazioni che vanno dai tessuti autopulenti alle tende da campeggio a prova di acquazzone, e non solo.
Il sito è peraltro strutturato molto bene, ma a questo punto credo di aver detto abbastanza, andate a farci un giro!
(Per ora il sito non è così ben fornito come spero sarà in futuro, abbastanza comunque da farvi perdere qualche pomeriggio se vi interessano queste cose, però fossi in voi lo salverei lo stesso tra i segnalibri di Mozilla, merita di farci qualche raid ogni tanto)

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le mirabolanti invenzioni di Imo da Koshima

L’isola delle scimmie sapienti

Koshima è una piccola isoletta giapponese vicina al villaggio di Ichiki, dal quale la si può raggiungere a piedi a patto però che ci sia bassa marea. Su di essa vive e prospera un nutrito gruppo di macachi giapponesi (Macaca fuscata) studiato ininterrottamente da ormai più di sessant’anni. Anche se a prima vista può sembrare un comune branco di una delle tipologie di scimmie più diffuse (il genere dei macachi è di tutti i primati quello a più ampia diffusione dopo l’uomo) ha una storia importante che negli anni gli è valsa un’attenzione particolare: è infatti proprio grazie a questa comunità che per la prima volta la parola cultura ha attraversato le barriere della nostra specie.
Nel 1948 Itani e Kawamura, due etologi giapponesi che all’epoca studiavano con Imanishi (il padre della primatologia giapponese, per inciso), stufi di studiare daini e cavalli selvatici decisero di visitare quest’isoletta che sapevano ospitare animali sicuramente più interessanti, specialmente per chi veniva da una cultura come quella nipponica che già all’epoca dava grande risalto allo studio della socialità animale. I macachi vivono difatti in gruppi molto numerosi con rapporti estremamente articolati tra i membri, molto diversi dalla semplice piramide con in cima un maschio alfa che probabilmente molti di voi hanno in mente. In aggiunta questa piccola isoletta presentava un “vincolo sociale” molto simile a quello che si ha negli zoo: uno spazio relativamente piccolo rispetto alla popolazione che lo abita e isolato dal resto del mondo fa si che difficilmente un maschio dominante venga spodestato (poiché gli sfidanti, provenienti dallo stesso gruppo se non addirittura “amici” d’infanzia, hanno tendenzialmente delle inibizioni ad attaccarlo), perciò non solo la tolleranza sociale ne viene mediamente innalzata, ma questo favorisce anche l’ulteriore formarsi di complesse gerarchie e reti di alleanze tra gli individui subordinati. Insomma, fu da subito evidente che Koshima era terreno fertile per ricerche che i posteri avrebbero ricordato.

Nel giro di pochi anni, come volevasi dimostrare, i primatologi che presero a seguire la comunità di macachi furono ampiamente ripagati della fiducia riposta in questi primati; furono aiutati anche da una giovane Satsue Mito, che all’epoca era solo la figlia del locandiere presso cui si fermarono Itani e Kawamura la notte in cui decisero del futuro delle loro ricerche ma che sarebbe diventata in futuro una delle più stimate scienziate nipponiche. Fu proprio lei che, mentre distribuiva le patate dolci (offrire del cibo era allora una pratica standard per riuscire a far accettare agli animali la presenza umana quel tanto che bastava per poterli studiare da vicino), si accorse nel 1953 che una giovane femmina di nome Imo aveva trovato, unica nella sua comunità, una soluzione al problema della terra che sporcava questi tuberi e ne peggiorava il sapore: lavarli nell’acqua, dapprima un ruscello (quando ancora la distribuzione avveniva nella foresta) e poi nel mare aperto. Fino a qui non ci sarebbe niente di veramente eccezionale, ma quello che stupì la Mito e tutti gli altri ricercatori coinvolti nel progetto fu che nel giro di pochi anni quasi tutti i macachi di Koshima impararono la medesima tecnica, dapprima i compagni di gioco di Imo, poi i familiari e in seguito tutti gli altri eccetto i maschi più anziani: si erano forse passati l’informazione? e se sì, come?

La vicenda, che esplose al di fuori del Giappone solo una decina di anni dopo, nel 1965, col primo articolo in proposito scritto in inglese, apriva interrogativi importanti su un mondo, quello animale, da sempre considerato “hard-wired”, cioè dal comportamento poco flessibile e incapace di andare oltre alle istruzioni riposte nei geni. L’articolo del 1965 era scandaloso anche per un altro motivo, oltre al contenuto in sé, poichè il titolo, seppur preceduta dal prefisso pre-, conteneva una parola pericolosa: “culturali”, riferita ai comportamenti di questi macachi. La cultura era stata difatti recentemente definita in termini naturalistici da Kinji Imanishi come “una forma di trasmissione del comportamento che non poggia su basi genetiche“, e per un etologo giapponese quale Kawai, l’autore dello studio, non doveva quindi sembrare troppo scandaloso intitolare il proprio articolo “Newly acquired pre-cultural behaviour of the natural troop of japanese monkeys on Koshima islet”. Senza contare che già Kawamura aveva notato come le differenze tra gruppi di macachi potessero essere fatte risalire a differenze “sottoculturali”.

Questa minima forma di cautela non era decisamente abbastanza per gli standard occidentali, tanto che questi risultati sarebbero rimasti discussi per decenni. La critica principale mossa all’interpretazione di questi dati è stata che, come ha fatto notare Galef in un articolo del 1990, non si può provare che il comportamento in questione non sia stato semplicemente imparato autonomamente da ogni scimmia, considerando inoltre che pare, o così sosteneva Galef, che Satsue Mito distribuisse le patate solo alle scimmie che avevano dimostrato di saperle lavare. La prima osservazione da fare è che quest’ultima diceria è probabilmente solo questo: una diceria, e l’unica fonte che ho trovato in proposito la classifica come un’osservazione fatta nel 1975 da un visitatore occasionale. Inoltre, se anche la Mito avesse dato le patate solo alle scimmie che le lavavano questo sarebbe stato controproducente per il diffondersi di questa tecnica poichè tra i macachi (e buona parte delle scimmie, tralaltro) i primi individui ad approfittare di una fonte di cibo devono sempre essere i maschi dominanti, e la pena per dei subordinati (come Imo, giovane e femmina, e i suoi compagni di gioco che per primi acquisirono la tecnica dopo di lei) che fossero stati visti mangiare delle patate prima dei dominanti sarebbe stata molto severa. Un ulteriore considerazione, che è poi una prova abbastanza sicura del collegamento tra apprendimento sociale e diffusione del comportamento di lavaggio delle patate, è legata all’ordine in cui è avvenuto il diffondersi della tecnica: come già ricordato, i primi a impararla furono i membri del gruppo che passavano più tempo con Imo e in seguito furono sempre i macachi più “vicini” alla giovane scopritrice ad acquisirla per primi; gli unici che non furono mai visti lavare le patate, inoltre, furono i maschi anziani che oltre ad avere uno stile di vita meno a contatto con gli altri macachi sono mediamente meno disposti ad accogliere innovazioni.

Ma si tratta di cultura? se è vero che i tre anni che la tecnica richiese per diffondersi in tutto il gruppo potrebbero anche essere un tempo ragionevolmente breve per una specie non dotata di linguaggio (e per quanto riguarda quella che più è un’abitudine che una tecnica dalla quale dipenda la sopravvivenza), è vero anche che in molti si aspetterebbero un processo più rapido da un fenomeno di trasmissione culturale. Inoltre, quello che non è mai stato dimostrato e forse non è nemmeno probabile che sia avvenuto è che ogni macaco abbia imparato a lavare le patate osservando e imitando gli altri membri del gruppo. L’imitazione è sicuramente la maniera più veloce ed efficace, ma non l’unica che permetta il diffondersi di un comportamento. Non voglio dilungarmi troppo su un tema che rischia peraltro di diventare un po’ troppo tecnico per un blog (e forse anche per lo scrittore del blog, che tecnico non è) quindi vado subito al dunque: in questa vicenda ha probabilmente agito un meccanismo chiamato rinforzo locale. Esperimenti di laboratorio successivi hanno infatti dimostrato che i macachi (e tutte le scimmie non antropomorfe con loro) non sono in grado di compiere imitazioni vere e proprie, tuttavia la semplice vicinanza a qualcuno che sia in grado di compiere una determinata azione complessa “favorisce” per così dire una nuova scoperta indipendente; in altri termini, essere vicino a Imo che lava le patate fa si che il compagno di giochi di Imo si interessi alle patate, abbia occasione di assaggiarne dei pezzi ripuliti, si trovi ad avere patate e acqua nello stesso luogo e via dicendo.

Se torniamo per un attimo alla definizione di Imanishi, “una forma di trasmissione del comportamento che non poggia su basi genetiche“, ci rendiamo conto che tra i macachi di Koshima c’è stata, e continua tutt’oggi nonostante il passare dei decenni e il succedersi delle generazioni, una trasmissione culturale, e per inciso molte altre innovazioni (delle quali molte partite da Imo, da cui il titolo) hanno seguito questa strada. La bontà della definizione di Imanishi, che ha il pregio di essere anche molto semplice e intuitiva, è che coglie esattamente il punto della questione. Nella storia del pianeta c’è stato un momento in cui in alcune specie il cervello ha cominciato a superare il genoma come numero di informazioni immagazzinabili, a prenderne parzialmente il posto per quanto riguardava l’indicare la strada da seguire e le decisioni da compiere. Con lo svilupparsi della comunicazione tra individui inoltre, chi condivideva un problema cominciava a condividere anche la soluzione, a prescindere da come facesse e da allora che si può cominciare a parlare di cultura, se si vuole dare un senso naturalistico a questo termine. Ecco perchè la definizione di Imanishi regge ancora oggi, perchè descrive la forma più semplice in cui il nuovo modo di organizzare la sopravvivenza, ovvero trasmettere informazioni utili all’interno di un gruppo, è comparsa sul campo da gioco dell’evoluzione; solo in questo senso la cultura può essere studiata dagli studiosi dell’evoluzione, e proprio in quest’ottica ha senso parlare di cultura per le scimmie di Koshima.

Riferimenti:

Gli articoli e i libri originali sono ovviamente introvabili o in giapponese, ma la vicenda è talmente famosa che si trova narrata in un sacco di libri. Personalmente consiglio vivamente “La scimmia e l’Arte del sushi” di Frans deWaal, che è anche un ottimo libro sulla questione “cultura, tecnologia&scimmie”.

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Dipinti a quattro mani

Appendereste un Congo alla vostra parete?

A volte capita che gli aneddoti più interessanti siano anche i più curiosi e viceversa, e così è sicuramente per le strane vicende che riguardano la produzione artistica delle scimmie. Dico strane non perchè siano da prendere poco sul serio, ma perchè sono tra quelle più difficili da leggere senza un senso di straniamento e un velo di diffidenza: in fondo non è l’Arte quello che più di ogni altra cosa ci “eleva” al di sopra degli altri animali?. Per quanto ne sappiamo nessun animale ha mai prodotto nulla di artistico in condizioni naturali, ma sulle loro potenzialità (perlomeno per quanto riguarda le antropomorfe) c’è tanto da dire che in questo campo le burle tirate ai critici d’Arte si sono spesso alternate agli esperimenti più seri senza che vi fosse realmente una differenza queste due maniere di affrontare la questione.
Negli anni ’70 era in corso un importante progetto di ricerca (a cui prima o poi dedicherò una serie di post) presso l’università dell’Oklahoma; diretto da Roger Fouts, lo studio portava avanti l’insegnamento a Washoe e ad altri scimpanzé, alcuni dei quali “proprietà” (anche se non mi piace usare questa parola nemmeno per i gatti, figurarsi per gli scimpanzé) di privati, del linguaggio dei segni, quello utilizzato dai sordomuti per intenderci. Se la cosa vi sorprende dovrete pazientare (o comprarvi “La scuola delle scimmie”/”Next of Kin” di Fouts), per oggi basti sapere che questi scimpanzé impararono numerose parole e qualche basilare regola grammaticale. Cosa più interessante, uno di loro di nome Ally si dimostrò particolarmente dotato per le arti visive, tanto che uno degli studenti (specializzato per qualche motivo che ignoro anche in Storia dell’Arte) lo notò e decise di farlo valutare. Portò quindi i quadri a un critico d’arte dicendo che li aveva eseguiti un suo giovane amico pittore (cosa peraltro vera) e questi reagì addirittura con entusiasmo: “Sapevo che lo stile di Pollock stava tornando in voga!” esclamò felice.
Raccontare questa storiella è una maniera per sottolineare la bravura di Ally o per denigrare l’arte contemporanea? Vediamo prima in cosa consista l’arte primate. Il primo studio in assoluto sull’argomento si deve a Nadie Ladygina-Kohts, una ricercatrice russa che studiò la percezione di forma e colore nel suo scimpanzé Yoni facendolo, tra le altre cose, disegnare con una matita su un foglio di carta. Negli anni quaranta fu il turno di Paul Schiller, pioniere di un esperimento che ebbe poi un grande successo: questi dava al suo scimpanzé, Alpha, dei fogli di carta dove erano già presenti dei simboli disegnati (oltre ovviamente agli strumenti per disegnare), con l’intento di vedere come si sarebbe comportato. Alpha dimostrò, in tutte le occasioni, di non gettare del colore a caso sul foglio, ma di scegliere attentamente i tratti in maniera da incorporare nel proprio disegno i simboli già presenti sul foglio. Inoltre sembrava che badasse particolarmente all’equilibrio dell’insieme, se ad esempio tre angoli di un foglio presentavano uno scarabocchio invariabilmente ne aggiungeva uno sull’ultimo angolo ancora bianco. L’argomento cominciò infine a uscire dagli esperimenti e a colpire l’immaginario collettivo nei tardi anni cinquanta, quando l’etologo e pittore surrealista Desmond Morris e lo scimpanzé Congo dimostrarono al mondo di cosa era capace un pittore scimpanzé, ottenendo addirittura un’esposizione delle opere del giovane quadrumane al quale venne riconosciuto uno stile fresco ed energico, e nei dipinti del quale venivano facilmente trovate simmetrie, variazioni ritmiche e attraenti contrasti di colore.
Torniamo ora alla domanda di prima, tutto questo serve forse a denigrare l’arte contemporanea? Significa forse che da Pollock e simili in poi basta lanciare della vernice su una tela per essere un artista? Ovviamente no (anche perchè sennò il mio professore di Estetica verrebbe a prendermi a casa brandendo una copia di “Zeit-Bilder”), soprattutto perché né questi grandi artisti umani nè il loro colleghi scimmia si limitano a lanciare vernice su una tela (con buona pace di tanti detrattori di entrambi).
Viene comodo, a proposito, l’ennesimo aneddoto: nel 1979 un pittore belga, Arnulf Rainer, si convinse che poteva disegnare come uno scimpanzé cercando di “imitarne i comportamenti”, e decise quindi di mettersi a dipingere accanto a uno di loro. Mentre lo scimpanzé aveva cominciato a dipingere pacificamente, però, il pittore cominciò a comportarsi come credeva che una scimmia si sarebbe comportata in un’occasione del genere, facendo cose come colpire con forza la carta, sputare, brandire nervosamente il pennello. Il risultato fu che lo scimpanzé, disturbato dall’agitazione dell’altro, smise di dipingere e si mise a saltare e a rincorrere l’altro per la stanza, e nessuno dei due dipinse qualcosa di apprezzabile durante quella seduta. Questo ci dice soprattutto qualcosa su quanti danni possa fare un pregiudizio, certo, ma ci fa intuire anche quanto dipingere sia per uno scimpanzé (e per le scimmie antropomorfe in generale) una cosa seria, nè Rainer è certo il primo ad aver fatto indispettire uno di questi strani pittori quadrumani, che in ogni occasione in cui capita loro di dipingere lasciano il pennello solo quando hanno deciso che il dipinto è completato, a volte rifiutando persino di mangiare per non interrompere l’attività. Il filosofo Thierry Lenain, che riporta anche l’aneddoto su Rainer, esaminò inoltre simultaneamente quindici opere prodotte in contemporanea da scimmie e umani, e non ebbe alcuna difficoltà nel riconoscere chi avesse dipinto quali dato che “le composizioni degli scimpanzé sono dirette e chiare. Le imitazioni, invece, sono reti di linee confuse e ingrovigliate, completamente illegibili, quasi fino all’isteria”.
Un altro aspetto interessante è che ogni scimpanzé ha un suo stile ben riconoscibile e delle preferenze ben marcate, sia per quanto riguarda colori e tecnica espressiva sia per quanto riguarda i soggetti dipinti; anche se è praticamente impossibile riconoscere i soggetti (io ci sono riuscito solo con dei dipinti del gorilla Michael, ma devo ammettere che sospetto un poco della loro totale autenticità per questioni che non racconterò qui e ora), scimpanzé e gorilla che abbiano imparato un qualche linguaggio possono dare un titolo ai quadri e si può così venire a sapere cosa preferiscono dipingere. C’è da dire che alcuni rimangono scettici sulla possibilità che questi quadri ritraggano davvero qualche oggetto reale, proprio per via dell’irriconoscibilità di questi soggetti, perciò anche se non mi sembra improbabile che abbiano bene in mente cosa disegnare prendete questa possibilità col beneficio del dubbio (senza esagerare).
Ma torniamo a una domanda più essenziale, è arte? Schiere di critici sostengono di sì, ed è sicuramente dimostrato che non si tratta di un semplice gioco fatto con tempere e pennelli ma di una vera e propria espressione volontaria, dato che queste scimmie sono ben consapevoli di cosa vogliono realizzare, anche se non siamo sicuri che vogliano riprodurre degli oggetti (può sembrare contorto, ma se ci pensate anche i piccoli della nostra specie fino a una certa età si limitano a disegnare figure astratte). Inoltre decidono autonomamente quando un’opera è completata, e molti di questi quadri colpiscono davvero per la forza espressiva e per la scelta e l’abbinamento dei colori. Certamente l’arte espressa da questi animali ha tanti punti di distacco con la nostra quanti sono i punti di contatto, quello che però non si può fare è negarle uno status che le è proprio, o mettersi sputazzare tempera su una tela e convincersi di star dipingendo come uno scimpanzé.

Un ultima chicca, l’immagine in cima al pezzo (e della quale mi scuso di non detenere gli eventuali diritti d’autore, sperando che chi di dovere capisca che lo faccio per un bene più grande) è un dipinto fatto da un bonobo speciale, quel Kanzi di cui ho parlato nello scorso pezzo; riuscite a indovinare qual è il soggetto del quadro? Come ricorderete Kanzi comunica attraverso i lessigrammi e in questa maniera ha titolato le sue opere, quando vorrete conoscere la soluzione cliccate col tasto destro sull’immagine, aprite le proprietà e date un’occhiata all’URL, in fondo c’è il titolo tradotto in italiano (io non ce l’ho fatta, per inciso).

p.s. personalmente trovo che i dipinti delle antropomorfe sia molto più interessanti dell’arte umana, e spesso più belli, se volete farmi un regalo consideratelo il primo punto della mia wishlist

Articolo originale? Eccolo, copia questo link:
http://scienzology.blogspot.com/2009/06/dipinti-quattro-mani.html

Scienzology

Uno dei motivi per cui scriverò un po’ meno da queste parti è che, banalmente, sto scrivendo da altre parti (e di argomenti nuovi), ma per quanto possa essere diverso quello che faccio su altri url non è il caso di nasconderlo ai miei fedeli lettori, credo. Pertanto ecco a voi

SCIENZOLOGY!

Un blog di divulgazione scientifica, dove parlo di Biologia, Evoluzione, Origini dell’uomo e animali che fanno cose che guarda non lo sapevi proprio che potessero. Non ti interessa? non lo sai se non leggi prima una ventina di post! quindi o aspetti che io li scriva o cominci subito a seguirmi, e vedrai che ti ci affezioni.

Ah, sto scrivendo anche per Pikaia, ma non ho ancora fatto una pagina con i link a tutti i miei pezzi, quando sarà la troverai sul blog nuovo

(metto il link per esteso per comodità: http://www.scienzology.blogspot.com)

Articolo originale? Eccolo, copia questo link:
http://paguropagano.blogspot.com/2009/06/scienzology.html

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Kanzi nell’età della pietra

Olduvaiani di ieri e di oggi

Due milioni di anni fa sulla sponda di un fiume della Tanzania qualcuno scheggiava la pietra in maniera tanto abile da guadagnarsi il nome per questo, ma era un uomo o una scimmia? La domanda sembra mal posta dato che gli artigiani di Olduvai erano ovviamente uomini (o meglio, appartenevano al genere Homo), e invece nasconde un interrogativo cruciale: Homo habilis era, cognitivamente, solo uno scimpanzé bipede dotato di cervello un po’ più grande dei suoi antenati? Oppure quelle pietre lavorate ci raccontano di un salto compiuto da questa specie in un punto imprecisato del processo evolutivo che lo portò a percuotere dei sassi in Africa Orientale? La domanda è cruciale anche per quanto riguarda l’altro lato della barricata, perché è proprio nei pressi del supposto confine che dovremmo aspettarci di trovare le traccie del presunto salto, dove e se le scimmie diventarono d’un tratto uomini.

Nel 1990 una conferenza portoghese portò con sé l’occasione propizia per uno studio sperimentale: in quell’occasione si incontrarono da un lato Nicholas Toth e Kathy Schick, due esperti archeologi sperimentali che avevano recentemente studiato e riprodotto la cultura olduvaiana (scoprendo, ad esempio, che il prodotto di quella manifattura erano le schegge taglienti e non i nuclei residui), e dall’altra Sue Savage Rumbaugh, che lavorava da anni con un gruppo di scimpanzé e bonobo insegnando loro un particolare tipo di linguaggio espresso tramite lessicogrammi, simboli da indicare su una lavagnetta o su una tastiera speciale. Quest’ultima si mostrò subito interessata della ricerca proposta dai due archeologi, e scelse per l’esperimento il suo bonobo più intelligente: Kanzi. Questi, all’epoca già famoso per i risultati ottenuti con lui nei test sul linguaggio appreso, aveva dimostrato in più di un’occasione una notevole intelligenza e capacità di apprendimento (tanto che aveva imparato il linguaggio dei lessicogrammi senza lezioni, semplicemente osservando quelle che venivano impartite alla madre quando era ancora un cucciolo attaccato al suo grembo), e avendo solo 9 anni era ancora nel pieno dell’adolescenza, un’età in cui queste scimmie sono particolarmente ricettive e smaniose di imparare nuove cose.

Un esperimento del genere era stato tentato in precedenza nel 1972 da Richard Wright con un orango di nome Abang, al quale era stato insegnato come ricavare delle schegge taglienti da un nucleo pre-lavorato; l’esperimento era sicuramente interessante, ma per molti versi non accurato come quello a cui Kanzi si apprestava a partecipare. Creare e modificare strumenti come fece Abang è sicuramente un’abilità eccezionale che per quanto già nota da decenni (in cattività, presso gli oranghi allo stato naturale solo da qualche anno) non manca mai di stupire quando viene confermata in una nuova maniera, ma non quanto quello che l'”Einstein delle scimmie”, come a volte viene soprannominato, stava per far vedere.

Il primo passo dell’esperimento fu quello di far comprendere a Kanzi l’utilità e le caratteristiche richieste in una scheggia tagliente, fornendogliene alcune e invitandolo a usarle per ottenere una ricompensa contenuta in una scatola trasparente chiusa con una corta di nylon. Inoltre al bonobo veniva mostrato come queste schegge potevano essere prodotte, ovvero percuotendo due pietre l’una contro l’altra. Non fu fatto nessun tentativo diretto per incentivare Kanzi a produrre delle scheggie, ma in breve tempo questi divenne un vero esperto e già agli inizi della sperimentazione faceva ogni tanto qualche tentativo di creare qualche scheggia da solo piuttosto che usare quelle presenti sul terreno. È bene rimarcare che anche quando cominciò a essergli richiesto di creare le scheggie da solo non fu mai utilizzata la tecnica del condizionamento operante (che consiste nel premiare l’azione corretta quando si presenta “casualmente”), fu lui stesso ad inventare infatti un suo stile personale nel creare schegge, che consisteva nello scagliare la pietra contro il duro pavimento del laboratorio.

Per quanto producesse schegge funzionali, questa tecnica era però ancora lontana da quella che si presupponeva fosse stata in uso tra i primi ominidi e perciò gli esperimenti furono continuati all’esterno del centro di ricerca, dove il terreno non permetteva di usare questo “trucco”. Il risultato fu notevole: Kanzi, che fino ad allora non aveva ottenuto molti risultati nel percuotere le pietre tenendole in mano anche perché non ci metteva abbastanza forza, comprese che la chiave era la maggiore potenza sprigionata dal lancio, e traslando questa scoperta alla tecnica che prima non riusciva a sfruttare cominciò a creare le sue prime schegge ottenute percuotendo una pietra tenuta in mano. V’è da dire che anche dopo questa scoperta preferì continuare a scagliare una pietra contro un’altra posta per terra a un metro di distanza (mostrando peraltro un’ottima mira) piuttosto che tenerle in mano, tuttavia gli artefatti di Kanzi poterono cominciare a essere comparati a quelli olduvaiani.

Esperimenti successivi hanno impegnato il bonobo a ricavare schegge sempre dallo stesso nucleo, e a imparare con successo a scheggiare i nuclei in prossimità degli angoli per ottenere più facilmente delle schegge. Durante i primi 3 anni dell’esperimento Kanzi ha dimostrato di comprendere l’utilità di queste schegge e la maniera in cui ottenerle, oltre che di saper scegliere le schegge più efficienti per tagliare la corda e ottenere la ricompensa. Ha inoltre inventato una tecnica adatta alle proprie capacità, dato che sembra avere qualche problema nel controllare alla perfezione la tecnica che vuole le pietre tenute in mano durante la percussione, e ‘ha saputa modificare quando l’elemento basilare, il pavimento duro, è venuto a mancare.

Ovviamente tra le capacità di Kanzi e quelle dei primi ominidi sussistono notevoli differenze, ad esempio questi avevano intuito come angoli di percussione più acuti permettessero di ottenere più facilmente delle schegge mentre Kanzi ha sempre utilizzato un angolo vicino agli 89.7 gradi che è l’angolo massimo col quale si possono scheggiare i materiali utilizzati nell’esperimento, ma l’opinione a uscire confermata da questo studio sembra essere più o meno quella espressa da Wynn qualche anno prima, ovvero che i costruttori di strumenti olduvaiani esibivano, nel fare ciò, capacità sostanzialmente simili a quelle di uno scimpanzé odierno. Questo non significa che, come lui stesso proseguiva, più in alto delle antropomorfe attuali non si spingessero proprio anche per quanto riguarda le abilità cognitive in generale (per quanto l’attribuzione di habilis al genere Homo abbia una storia interessante che un giorno racconterò), ma ci aiuta a conoscere un po’ meglio sia i nostri antenati che i nostri parenti prossimi ancora in vita.

Riferimenti:

Kathy Schick, Nicholas Toth “Making Silent Stone Speak

Kathy D. Schick, Nicholas Toth, Gary Garufi “Continuing Investigations into the Stone Tool-making and Tool-using Capabilities of a Bonobo (Pan paniscus)”, Journal of Archaeological Science, 1999, n.26

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http://scienzology.blogspot.com/2009/06/kanzi-nelleta-della-pietra.html

I più antichi monili mai ritrovati

Una conchiglia è per sempre

Qui l’articolo che ho scritto per Pikaia

La notizia è un po’ invecchiata per via della mia incostanza, ma fortunatamente quando si tratta di fossili il tempo assume sempre un’importanza relativa. Quasi sempre a dire il vero, dato che datare certi reperti diventa a volte cruciale anche solo per stabilirne la rilevanza, ed è proprio il caso della notizia di oggi (o meglio, di qualche settimana fa).

Fino a qualche decennio i nostri antenati più prossimi (o nonni più antichi), ovvero i sapiens vissuti nel Paleolitico, ponevano una scomoda domanda a chi ne studiava i ritrovamenti: come mai l’uomo è anatomicamente moderno da un po’ meno di 200.000 anni fa ma le prime manifestazioni artistiche e simboliche si ritrovano solo in Europa e sono databili intorno a 35.000 anni fa? la conferma molecolare arrivata nei primi anni ’90 che l’origine della nostra specie è effettivamente molto più tarda dei ritrovamenti europei in questione non fece altro che rendere il tutto più problematico. Inutile dire che in molti postularono come ormai certa la comparsa di comportamenti pienamente moderni solo in concomitanza con la migrazione europea e si affannarono a cercare una spiegazione, ma come spesso accade la soluzione era più semplice di così.

Uno degli aspetti che all’epoca risultarono meno evidenti è che l’Europa era semplicemente il continente dove gli scavi andavano avanti da più tempo, e dove erano stati più numerosi, e difatti da qualche anno abbiamo numerosi reperti che attestano capacità artistiche e simboliche nel continente nero; bastava cercare più a fondo, dopotutto. Ad ogni modo i ritrovamenti più antichi continuavano fino a poco tempo fa a essere relativamente recenti, poichè se si eccettua il sito di Es-Skuhl in Israele di datazione dubbia non si scendeva sotto i 72.000 anni di Blombos in Sudafrica, ecco perchè il ritrovamento di Taforalt è così importante.

In questa cava del Marocco orientale sono state ritrovate da Nick Barton e Abdeljalil Bouzzouggar (qui l’articolo) svariate conchiglie forate, presumibilmente utilizzate per inanellare collanine rituali o semplicemente decorative. La datazione del sito, come si diceva, è straordinaria: 110.000 anni fa. Gli autori dello studio credono inoltre, e apparentemente con buone ragioni, che la “cultura della collana”, come potremmo chiamare l’usanza di decorare il proprio corpo in questa maniera, sia comparsa in più luoghi indipendentemente, ed è sicuramente significativo che tra gruppi di uomini così antichi (per quanto praticamente identici a noi) fosse così comune sentire la necessità di ornare il proprio corpo. Sicuramente spazza via le vecchie idee, un po’ passé, sull’Europa come culla della mente pienamente moderna.

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http://scienzology.blogspot.com/2009/06/i-piu-antichi-monili-mai-ritrovati.html

tanto per battere un colpo

Sull’intera faccenda “papi” in fondo mi basta linkare un mio vecchio pezzo (bello avere un archivio lungo, risparmia fatica) sull’importanza, da considerare con le pinze, della moralità nella politica (ricordo a tutti che in Italia non è reato fare del sesso consenziente con una minorenne sopra i 14 anni).

Il che non lo giustifica, sia chiaro, vorrebbe semmai spostare l’attenzione su altre cose che mi sembrano più importanti.

Tipo il caso Mills, l’unico avvocato al mondo ad essere stato corrotto da un non-corruttore.

Per dirne una.

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http://paguropagano.blogspot.com/2009/05/tanto-per-battere-un-colpo.html

tanto per battere un colpo

Sull’intera faccenda “papi” in fondo mi basta linkare un mio vecchio pezzo (bello avere un archivio lungo, risparmia fatica) sull’importanza, da considerare con le pinze, della moralità nella politica (ricordo a tutti che in Italia non è reato fare d…

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