“Grandi società pronte a spartirsi la Lombardia”. Il Sole24 Ore non ha dubbi e mercoledì 7 luglio dedicava l’apertura del suo inserto lombardo alla caccia alle concessioni in monopolio dei servizi idrici. Secondo le indiscrezioni del quotidiano degli industriali in pole position ci sarebbero Acea (che sta già provando ad inserirsi a Cremona), Hera, Iren (nata dalla fusione di Iride ed Enìa) e poi le francesi Veolia e Suez, le spagnole Acciona e Aqualia e l’inglese Severn Trent. Le prede più ambite, neanche a dirlo, Milano e la sua Provincia, più Monza. Secondo Il Sole grazie al decreto Ronchi, tutto filerebbe liscio: gare dal 2010, nuova legge regionale (perché con l’abolizione delle autorità d’ambito bisogna riassegnare le competenze), affidamento della scelta del gestore in concessione da parte delle Province (i Comuni cancellati). Non solo. Verrebbe anche rilanciato il “modello lombardo”, già bocciato dalla Corte Costituzionale nel novembre 2009, perché sottraeva allo Stato e alle competenze fondamentali dei Comuni la decisione finale sull’organizzazione di un servizio pubblico locale fondamentale. La legge regionale lombarda, contro cui si erano appellati 144 Comuni di ogni colore politico, prevedeva infatti l’obbligo di separazione tra reti ed erogazioni: le reti a un’azienda patrimoniale pubblica che doveva garantire gli investimenti, l’erogazione, la manutenzione e la depurazione (dove ci sono i migliori margini di profitto) a gara con l’entrata dei privati. Un modello che piace tantissimo ai liberalizzatori ma pessimo per i difensori del bene comune – forse il più pericoloso – perché regala i rubinetti e le bollette a chi fa “industria”, sganciato da perdite, responsabilità delle reti, obbiettivi di risparmio, carattere universale del servizio ecc.
Si realizzerebbe così lo spezzatino del servizio idrico integrato tanto rivendicato dai liberalizzatori negli ultimi 15 anni, senza nessun guadagno di efficienza. È dimostrato proprio in Lombardia dove il “modello” è già stato avviato: nella Provincia di Milano, uno dei più grandi ambiti italiani con oltre due milioni di cittadini serviti. Finché nel milanese l’intero servizio idrico integrato era affidato alla S.p.A. pubblica Cap (Consorzio acque potabili) tutto andava per il meglio, almeno secondo i dati di Mediobanca del 2008 che assegnava al Cap una serie di record nazionali: investimenti pari al 35% del fatturato, migliori incrementi di produttività per chilometro di rete gestita, migliore produttività per addetto. Il tutto con uno dei più bassi costi del ciclo idrico (0,66 centesimi al metro cubo), con solo il 15% delle perdite e a tariffe ferme dal 2002, senza nemmeno l’adeguamento Istat. In Italia nessuno riusciva a fare meglio. Riusciva. Perché, nel 2009, prima il centrosinistra e poi il centrodestra decidono di smembrare il Cap, dividendo rete ed erogazione e l’eccellenza milanese dell’acqua comincia a scricchiolare. Il motivo è abbastanza logico: doppi uffici, doppie sedi, doppi controlli… nessuna visione complessiva. Liti sugli investimenti, le responsabilità e l’attribuzione della tariffa. Anche nelle altre due realtà dove esiste la separazione, la Provincia di Monza e quella di Pavia, la situazione è identica: il servizio al cittadino arranca con pochi mezzi destinati a supplire gli interventi del gestore reti accusato di lesinare gli investimenti, mentre quest’ultimo accusa a sua volta gli erogatori di non collaborare. Ma il senso del servizio idrico integrato introdotto dalla Legge Galli non era proprio quello di una gestione unica, senza scaricabarili e con una visione complessiva della risorsa (potabile, fognatura, depurazione, sprechi, sostenibilità, ecc.)?
Pur di aprire i rubinetti e i portafogli dei cittadini ai privati, questo governo è disposto a tutto, anche a rimangiarsi l’integrazione del servizio. E il ministro Ronchi – che continuiamo a non capire perché si occupi d’acqua visto che ha le deleghe per le politiche europee e non per l’Ambiente, il Territorio o le Infrastrutture nazionali – avrebbe anche fatto un incontro con la Regione Lombardia per verificare le “linee guida“ lombarde e probabilmente farne tesoro per il regolamento attuativo del suo decreto che ancora non vede la luce dopo 9 mesi di gestazione. Sarà il “modello lombardo” la ricetta finale della privatizzazione in corso? Se così fosse, ci vorrebbe un altro intervento legislativo per aggirare la sentenza della Corte Costituzionale (Il Sole scrive “un escamotage nel testo unico sull’ambiente”, sigh!) oppure blindare il consenso di tutti i Comuni interessati. Più facile la prima ipotesi, perché come ben si sa, è più facile far votare alla Lega Nord lo scippo di risorse e controlli ai Comuni a Roma, mentre “sul territorio” sembra francamente impossibile che possano mai accettarlo. Qualcuno avvisi i 144 sindaci che si opposero alla prima legge lombarda e che ora rischiano di vederla ritornare dalla finestra che Formigoni e Ronchi sono pronti a riprovarci.
fonte: acquabenecomune.org
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