A Calcinato potrebbero esserci i fanghi di Porto Marghera

Che lì ci fosse una discarica, gli enti lo sapevano da qualche tempo. Ma che quella discarica sarebbe ben presto diventata «il giallo ambientale» dei giorni nostri, nessuno lo aveva messo in conto. Soprattutto, a fare rimanere i team di tecnici (sì «i team», al plurale) a bocca aperta è una delle piste sul tavolo: il sospetto che quei veleni ignoti – rifiuti che finora non si è riusciti a classificare perché risultati negativi ad ogni sostanza testata – siano approdati nel Bresciano direttamente da Porto Marghera. E – per dirla con le parole di uno degli esperti che preferisce rimanere anonimo – «da Porto Marghera non solo non può arrivare niente di buono ma se, come pare, qualche carico ha raggiunto negli anni la nostra provincia, significa che ci è arrivato certamente in modo illecito».

Comune di Calcinato, cantiere Tav, acronimo di treno ad alta velocità. Nell’area dove stava l’ex canile, sottoterra, dormono da anni cumuli di rifiuti accatastati in una buca profonda ben sedici metri. Cepav Due (che si sta occupando dei lavori) era informata: i carotaggi andavano eseguiti e, se necessario, sarebbe dovuta seguire anche la bonifica delle aree per poter tradurre in pratica il progetto. Tutto era pianificato, anche il «fondo risanamento ambientale» per un eventuale intervento. Ma il quadro che i tecnici sia del dipartimento dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente – diretta da Fabio Cambielli – sia del team privato che si occupa dei rilievi si sono trovati di fronte è un unicum. Nessun campionamento restituisce un riscontro. Tradotto: non si riesce a capire a quali tipologie di sostanze ci si trovi di fronte. Un garbuglio di veleni tale da diventare un vero e proprio giallo, con «rifiuti fantasma» che rischiano di avere sulle spalle una storia tribolata. Una storia che (ri)legherebbe Brescia al traffico illegale di rifiuti e, soprattutto, al disastro di Porto Marghera.

Quali gli elementi certi? Almeno tre. Il primo: si tratta di scarti – verosimilmente pericolosi – costituiti da fanghi. Il secondo: recentemente, l’Arpa ha posizionato diversi piezometri nel sito e in uno di questi è stato riscontrato il superamento delle concentrazioni di solventi nella falda. Il terzo: quegli scarti, qualsiasi origine abbiano, vanno rimossi da lì, altrimenti il cantiere non potrà proseguire.

Chi e come se ne dovrà occupare? Per il 50% l’operazione dovrebbe essere in capo a Cepav Due, mentre al momento non è chiaro chi si occuperà di sborsare la metà rimanente dei fondi necessari per risanare lo spazio. Ma questo non è l’unico problema. Se gli enti non riescono a capire di quali sostanze si tratta, questi rifiuti con quale classificazione verranno smaltiti? Un’ipotesi potrebbe essere catalogarli in via precauzionale come «scorie pericolose», opzione che farebbe lievitare (e non di poco) il preventivo per rimozione e conferimento.

Uno dei tecnici sottolinea poi un’altra amara certezza: se non si fossero messi in moto i cantieri Tav, quei veleni, per quanto tempo ancora sarebbero rimasti seppelliti lì senza che qualcuno se ne accorgesse o potesse intervenire? 

Il dubbio che quella discarica dimenticata nasconda del materiale proveniente da Porto Marghera – o quantomeno transitato attraverso il sito di Mestre – è una delle piste che si stanno vagliando, anche alla luce di inchieste che sembrano tornare dal passato, come un boomerang impazzito. Per capire, bisogna riavvolgere il nastro e tornare al 2014, quando ad occuparsi della ricostruzione geografica del viaggio dei rifiuti è stato l’allora procuratore generale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso.

Era stato lui a portare alla luce il percorso di scarti tossici provenienti dall’estero o dai siti più inquinati d’Italia, un tragitto che faceva rotta in Lombardia. All’epoca, un carico arrivato a Porto Marghera e poi finito nel Bresciano fu individuato e sequestrato, ma si stava indagando anche su altri possibili carichi e rotte. «Il distretto bresciano e quello contiguo milanese sono il punto di riferimento di tutto il traffico di rifiuti di ogni tipo e di ogni genere che si è spostato da Sud a Nord: si tratta di un business su cui anche l’ndrangheta vuole mettere le mani» diceva allora Dell’Osso. In sostanza, i veleni industriali, già a partire dagli anni ’70,’80 e ’90, venivano sversati anche in una parentesi territoriale ben definita del Nord Italia, un perimetro che parte dal Milanese, attraversa Bergamo, si spinge fino alla provincia di Brescia e traguarda in Emilia Romagna. 

L’ultima considerazione del tecnico, che preferisce restare in incognito per non mettere a rischio il proprio posto di lavoro, è un pugno nello stomaco: «Lo smaltimento di queste sostanze tossiche non era regolamentato in alcun modo. Si scavava una buca e si sotterrava dove capitava: Brescia è molto estesa e si prestava bene a questo sistema». In effetti, guardando lo skyline urbano della nostra provincia, e scorrendo le fotografie del passato, un elemento balza subito all’occhio: il paesaggio è passato da pianeggiante a collinare. Ma cosa ci sia, sotto queste «nuove colline», è talvolta ancora un velenoso mistero. Come nel caso di Calcinato

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